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Che cosa rischia il made in Italy dopo lo strappo Usa con l’Iran

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il nucleare iraniano

Che cosa rischia il made in Italy dopo lo strappo Usa con l’Iran

Pmi e multinazionali, tutte con il fiato sospeso. Preoccupate e rassegnate alle parole del presidente Donald Trump e all’intenzione di uscire, per parte americana, dall’accordo sul nucleare e, quindi, ripristinare le sanzioni sull’Iran. Alberto Presezzi – l’amministratore delegato della brianzola Bruno Presezzi (che fa impianti per l’industria metallurgica e siderurgica) e che 2 anni fa ha rilevato la Franco Tosi, storica azienda meccanica di Legnano – ieri sera era in un ristorante di Teheran.

«La preoccupazione – spiega – qui è enorme. Perché rischiamo davvero di regalare centinaia di milioni di commesse a Russia e Cina». La Franco Tosi – che ha una joint venture con l’iraniana Mapna – aveva acquisito una maxi-commessa da 66 milioni già prima dell’acquisizione. «Abbiamo progetti sospesi da mesi – spiega Presezzi – per interi impianti oil&gas “chiavi in mano”. Ma le parole del presidente Trump rischiano, di fatto, di bloccare, quel faticoso processo di apertura che è in corso da mesi. Tutto è fermo, in attesa. Tutto rischia di restare fermo».

Le ripercussioni
Dall’oil&gas alla logistica, dalla componentistica meccanica alla lavorazione delle materie plastiche, lo stop del presidente Trump potrebbe essere un colpo doloroso per una quota consistente, e ad alta innovazione tecnologica, del nostro Made in Italy. La chiusura americana potrebbe, infatti, azzerare gli sforzi fatti sinora per ricucire i rapporti con Teheran.

Sinora, nonostante la sospensione delle sanzioni, al minimo errore commesso da una banca o da un’impresa europea in Iran, si rischiava una doppia sanzione americana: quella per la violazione delle regole e ripercussioni sulla propria operatività negli Usa. La decisione di Trump potrebbe quindi indurre le aziende europee, a dover fare una scelta di campo, tra lavorare con Teheran (che, per l’Italia, vale 5 miliardi di interscambio) o con Washington (che ne vale oltre 50). Non c’è partita. Ma una scelta, comunque, dolorosa.

L’interscambio
Nel 2016 il Made in Italy verso l’Iran è cresciuto di quasi il 30% rispetto al 2015, passando da 1,2 a oltre 1,5 miliardi (mentre noi importiamo per 1 miliardo, quasi tutto greggio). Nel 2017, una crescita del 12,5%, ci ha portato un export di oltre 1,7 miliardi. Eravamo a oltre 7 miliardi prima delle sanzioni.
Se, sinora, erano ripartite le forniture e le commesse sotto i 24 mesi, per quelle superiori – per i grandi progetti di investimento al palo, che hanno tempi di gestazione più lunghi – a gennaio Invitalia Global Investment aveva siglato un accordo con due banche iraniane, la Bank of Industry & Mine e la Middle East Bank, per l’apertura di linee di credito in loro favore, fino a 5 miliardi di euro. Un accordo rimasto sulla carta, in attesa di un decreto attuativo, che anche un nuovo Esecutivo potrebbe non assicurare.

I colossi europei
Ma a pagare il prezzo più alto potrebbero essere i principali colossi europei, con effetti immediati soprattutto se gli accordi già siglati in Iran sono in dollari.

Total ha un accordo da 1 miliardo di dollari per lo sviluppo di un giacimento off shore di gas naturale. Secondo indiscrezioni riportate dal Wall Street, Journal, l’ad di Total, Patrick Pouyanne, avrebbe chiesto a funzionari francesi di fare pressione sugli Usa per ottenere un’esenzione.

Renault ha firmato lo scorso anno una joint venture con case automobilistiche iraniane per la produzione di 150mila auto e si attende di poter portare avanti l'iniziativa anche in presenza di sanzioni visto che la maggior parte delle auto sono prodotte in Iran. Mentre ieri non esprimeva ottimismo, Airbus, che ha firmato un accordo per la vendita all’Iran di 110 aerei: finora ne ha consegnati tre e i manager di Airbus temono di perdere la licenza per le ulteriori consegne, che hanno oltre il 10% di componenti americani e sono soggetti ai controlli Usa sull’export. Un affare da 38 miliardi di dollari.

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