Tre, grandi e urgenti scenari di crisi per la mani di Donald Trump. Per le mani della sua America First, che mai come oggi sembra fare della geopolitica un “cantiere” governato dalle regole da immobiliarista d'assalto. Dove si corrono rischi e si scommette su azzardati premi. Sperando che alla fine la torre non fallisca - o non crolli. Fuor di metafora le “torri” di crisi oggi come oggi alle porte della Casa Bianca hanno almeno tre nomi: Cina, Medio Oriente e Corea del Nord. Almeno sul secondo i rischi di spirali di conflitti e tragedie sono elevati; sugli altri due Trump si sta sforzando di strappare successi ma con manovre al cardiopalma che potrebbero ancora trasformarsi in un boomerang.
Cina
Prove di disgelo si sono alternate oggi a quelle di guerra commerciale tra due grandi potenze economiche rivali e con interessi strategici concorrenti - di influenza regionale e globale e di primati futuri nell'innovazione e nell'hi-tech. Il Segretario al Tesoro statunitense Steven Mnuchin proprio domenica ha annunciato al canale Tv Fox che il conflitto tra le due nazioni a base di dazi e controdazi multimiliardari e' stato “congelato” per dar tempo a ulteriori trattative. Nell'ultima tornata di negoziati a Washington, appena conclusa, le parti hanno prodotto una mini-intesa che contiene promesse ma nessuna cifra concreta. Gli americani hanno premuto senza esito per un impegno cinese - irrealizzabile anche agli occhi di molti analisti indipendenti - a una riduzione del deficit bilaterale annuale statunitense di 200 miliardi di dollari entro il 2020 dagli attuali 370 e piu' miliardi. Il comunicato congiunto, di per se' un segnale positivo, prevede semplicemente che la Cina acquisti piu' “made in Usa” e cita in particolare beni agricoli e energia. Ipotizza pero' anche nuovo lavoro comune su violazioni alla proprieta' intellettuale e furto di tecnologia, dei quali Washington accusa Pechino. E che sono alla radice di minacciati dazi su import americani da Pechino pari a 150 miliardi di dollari e su restrizioni agli investimenti i quali, se messi in pratica, potrebbero scatenare drastiche escalation del conflitto nell'interscambio. I canali di dialogo sono dunque oggi aperti, ma mete diplomatiche appaiono ancora incerte.
Medio Oriente
E' la situazione che forse piu' ai altre rischia di sfuggire di mano ed e' carica di incognite, nel breve e soprattutto nel lungo termine. In un clima di totale paralisi di negoziati tra israeliani e palestinesi, la mossa accelerata di Trump di trasferire l'ambasciata americana a Gerusalemme - dove metterei anni, l'ha fatto in mesi - ha subito scatenato le peggiori violenze da tempo nell'area. Trump si e' legato a doppio filo a Benjamin Netanyahu, il leader israeliano considerato meno propizio negli ultimi decenni per soluzioni politiche e diplomatiche al dramma palestinese. Dall'altra parte, quella palestinese, regna una leadership giudicata estremista o corrotta che in presenza di nuove tensioni difficilmente cambiera' strada. La mossa su Gerusalemme, per Trump, sembra oltretutto essere stata frutto non tanto di una nuova visione del Medio Oriente e della diplomazia (un promesso piano regionale sotto gli auspici del genero e consigliere Jared Kushner resta per ora da sfornare) bensi' di un nuovo genere di politica estera avventurista. Non quella espansiva della guerra in Iraq ma quella ispirata da un calcolo riduttivo dettato dal nazionalismo in patria. Ha mantenuto, di ceeto, una promessa elettorale fatta a una destra radicale, religiosa e politica, da sempre appassionata, oltre che della possente macchina da guerra israeliana, delle ragioni bibliche e non laiche di Israele sulla base delle loro convinzioni sulla fine del mondo. Tutto questo senza neppure contare l'altro fronte di crisi aperto con un difficile protagonista regionale, l'Iran, uscendo dall'accordo multilaterale sul nucleare e reimponendo sanzioni a 360 gradi a Teheran e chi fa business con lei. Uno strappo consumato anche con gli alleati europei, che restano impegnati a cercare di difendere l'intesa. E che solleva altri interrogativi sulla stabilita' della regione, dati i ruoli iraniani in paesi quali Siria, Iraq e Libano.
Corea del Nord
Qui agli insulti reciproci su chi aveva il bottone nucleare piu' grosso e all promesse di annichilamento reciproco, tali da sembrare velati riferimenti alla virilita', Trump e Kim Jong-un hanno sostituito una distensione che dovrebbe materializzarsi con un summit tra i due leader a Singapore il 12 giugno. In agenda c'e' nientemeno che la denuclearizzazione della penisola coreana e una pace che sostituisca la tregua che regna dal conflitto coreano negli anni Cinquanta. Cio' in cambio di aperture economiche americane a Pyongyang che permettano lo sviluppo del Paese e rafforzino il potere di Kim (Trump ha promesso che potra' restare in sella, anzi l'ha definito un leader onorevole). Il problema e' pero' tutto nei dettagli: cosa le parti intendano esattamente per denuclerizzazione, in termini di passi concreti, e per sostegno economico. L'alta posta in gioco tra due leader imprevedibili e' affiorata in questi giorni con le minacce di Kim di ritirarsi dal summit se Washington insistera' su disarmi uniliterali e con le marce indietro americane su esercitazioni militari assieme alla Corea del Sud per evitare ulteriori tensioni. Al di la' della retorica, che vede Trump esprimere indifferenza se il meeting di Singapore avra' o meno esito, per la Casa Bianca rappresenterebbe indubbiamente il primo, vero successo di una politica estera molto discussa ed e' quindi molto alto nell'agenda delle priorita' (c'e' chi scomoda anche il Premio Nobel per la Pace). Il nuovo Segretario di Stato Mike Pompeo si e' piu' volte precipitato a Pyongyang per mettere a punto i preparativi, parsi agli esperti tardivi e affrettati e dunque pericolosi. Con le elevate aspettative, anche lo spettro di uscire a mani vuote in una partita di reciproche manipolazioni si e' fatto piu' cupo.
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