È un vecchio cavallo di battaglia di Matteo Salvini, ora rivendicato in Europa dal premier Giuseppe Conte: «Superare Dublino», inteso come il regolamento di Dublino III che disciplina la gestione delle richieste di asilo e scarica le responsabilità sui paesi di primo approdo. Un testo approvato nel 2013, due anni prima della crisi migratoria e dell’urgenza di istituire un sistema di quote che smaltisse la pressione sulle coste di Grecia, Spagna e, appunto, Italia. Tutti i paesi della Ue sono d’accordo nel rinnovarne l’impianto, anche se si spaccano (quasi) a metà tra chi spinge per aumentare gli obblighi di solidarietà e chi rifiuta per principio la ridistribuzione.
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L’Italia beneficerebbe di più dalla prima opzione, quella portata avanti dalla Germania di Angela Merkel. Al momento, però, ha finito per sposare la seconda: quella sponsorizzata dal blocco di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) con l’assist del cancelliere austriaco Sebastian Kurz e della «altra Germania» di Horst Seehofer, il ministro degli Interni bavarese che osteggia dall’interno Merkel. L’importante è sfuggire ai «diktat di Berlino», anche quando potrebbe essere proprio il Bundestag a salvarci.
Di cosa stiamo parlando: Dublino III e la sua riforma
L’ipotesi di riformare il regolamento di Dublino III, ribattezzato Dublino IV, ha preso piede con l’esplosione della crisi migratoria nel 2015. Il vecchio impianto fissava, e fissa tutt’ora, un meccanismo sbilanciato tra i criteri di responsabilità e solidarietà all’interno dell’Unione europea. Le nazioni più esposte sulle coste del Mediterraneo, come l’Italia, devono accollarsi il grosso delle responsabilità dei migranti, visto che Dublino III obbliga i «paesi di primo ingresso» a valutare tutte le richieste di protezione avanzate da chi sbarca sul loro territorio. Da qui l’impulso a rivedere l’impianto delle norme, sfociato in una proposta di riforma della Commissione nel 2016, poi modificata e approvata dall’Europarlamento nel novembre 2017. Il caposaldo della proposta della Commissione era il cosiddetto «meccanismo di assegnazione correttivo»: un sistema che stabilisce quando un paese tratta un numero sproporzionato di richieste di asilo, a tutela di quelli penalizzati dal criterio del «primo arrivo».
Se un paese supera la soglia del 150% rispetto al suo valore di riferimento (quanti migranti dovrebbe accogliere in rapporto a Pil e popolazione), scatta la redistribuzione in altri Stati membri della Ue, con una sanzione di 250mila euro per ogni migrante respinto. La versione limata dal Parlamento è intervenuta più in profondità, cancellando il meccanismo del «primo arrivo» in favore di una «accoglienza europea», innestando un meccanismo di ridistribuzione automatico ed eliminando le sanzioni pecunarie, sostituite da tagli ai fondi strutturali. Il testo ha ricevuto il via libera dell’Eurocamera con 390 voti favorevoli, 175 contrari (inclusi i Cinque stelle) e 44 astenuti (la posizione della Lega). Poi la palla è passata nelle mani del Consiglio Ue, portando all’impasse noto alle cronache: due anni di braccio ferro e cinque presidenze di turno del Consiglio europeo senza neppure avvicinarsi a un’intesa. Dopo il voto sfavorevole di sette paesi allo scorso consiglio degli Affari interni, compresa l’Italia, si è parlato di «morte della riforma di Dublino». Non si è ancora arrivati a punti di non ritorno, ma l’atmosfera non ha fatto altro che appesantirsi.
Le 48 ore più lunghe per Schengen
È in questo clima che sta per consumarsi il vertice del Consiglio europeo del 28-29 giugno. Sul tavolo ci sono diversi temi che scottano, come la proposta franco-tedesca di un bilancio europeo, ma la questione dei migranti resta una delle più conflittuali. In origine si profilava una spaccatura a tre fra Francia e Germania (favorevoli alla riforma approvata dall’Europarlamento, peraltro appoggiata anche dai Popolari), i paesi mediterranei (Italia, Grecia e Spagna, intenzionate a strappare un accordo meno penalizzante) e il blocco dei paesi dell’Est (già contrari in blocco alla riforma emendata dal Parlamento e a qualsiasi ipotesi di ridistribuzione delle quote). Alla vigilia del summit, però, i blocchi sembrano essersi ridotti a due. Da un lato l’Europa dell’Ovest guidata dalla Merkel, alla ricerca dell’appoggio dei paesi mediterranei per approvare la riforma da Dublino III (il regolamento che penalizza i «paesi di primo arrivo») a Dublino IV, testo che elimina il concetto stesso di primo arrivo e rende obbligatoria la ridistribuzione.
Dall’altro il blocco dell’Est, contrario a qualsiasi meccanismo di solidarietà, anche a costo di penalizzare i cugini del Sud Europa, inclusa l’Italia di Matteo Salvini. «È evidente che l’Italia dovrebbe spingersi verso la Merkel, invece che occhieggiare chi sposa linee sfavorevoli a noi. Ma è come se Salvini stesse sacrificando gli interessi del paese per i suoi calcoli», dice al Sole 24 Ore l’eurodeputata socialdemocratica Elly Schlein. «L'Italia non ha niente da guadagnare da una coalizione nazionalista e antieuropea - aggiunge Ska Keller, copresidente del gruppo dei Verdi all'Europarlamento - Posso capire che molti italiani siano delusi dalla Ue e si sentano abbandonati. Ma tornare indietro non è una soluzione». L’affossamento di Dublino IV rischierebbe di far saltare un principio prezioso per paesi come Italia e Grecia: l’idea di «un’accoglienza dell’Europa, non gravata sulle spalle di un solo paese» spiega Marco Borraccetti, professore di diritto della Ue all’Università di Bologna. Mal che vada si rischia una riunione senza esito. Malissimo che vada, dicono dall’Europarlamento, «qui rischiamo di giocarci Schengen».
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