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Dazi, prezzi, Trump. Come orientarsi nella guerra commerciale estiva

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Dazi, prezzi, Trump. Come orientarsi nella guerra commerciale estiva

I dazi sono come le patatine: l’ultima è sempre quella che viene dopo e non ci si ferma più, si comincia con i balzelli sulle lavatrici coreane (Stati Uniti, gennaio) e si finisce con quelli sul Jack Daniel’s (Unione Europea, giugno). E dire che un bel sorso di whiskey (on the rocks, visto il caldo) e un respiro profondo potrebbero comporre la profilassi adeguata per affrontare l’annunciata torrida estate dei protezionismi incrociati. Perché quello che è andato in scena finora sembra solo un antipasto: poca sostanza, condita da molte sapide chiacchiere. Dal 6 luglio, invece, si fa sul serio, con i dazi americani su 34 miliardi di dollari di esportazioni cinesi e la simmetrica risposta di Pechino. Ma qual è la verità sulla guerra commerciale che incombe asfissiante come un anticiclone?

La guerra commerciale è già iniziata
A parole da un pezzo. Nei fatti, fino a venerdì le superpotenze economiche si erano scambiate qualche colpo d’avvertimento: i dazi Usa su acciaio e alluminio e la risposta europea su moto e burro d’arachidi incidono su frazioni irrilevanti di Pil (ma non andate a dirlo a chi opera nei settori direttamente coinvolti). Dal 6 luglio il botta e risposta tra Cina e Usa è diventato più corposo. Se poi si passasse alla guerra totale, con la minaccia Usa di tassare fino a 500 miliardi di export al grido di “America First”, magari accompagnata dai dazi sull’auto, le conseguenze sarebbero da campo di battaglia. La guerra commerciale scatenata dagli Usa con lo Smoot-Hawley Act del 1930 innescò una spirale di ritorsioni che fece crollare del 60% l’interscambio americano, accelerò la crisi economica mondiale e alimentò l’ascesa dei movimenti nazionalisti e populisti in Europa: un percorso che condusse alla Seconda guerra mondiale (e qui un goccetto ci vuole).

Il commercio distrugge posti di lavoro
Solo in minima parte. È vero che alcuni settori, come la siderurgia, negli anni hanno subito pesantemente la competizione di Paesi avvantaggiati da manodopera a basso costo e sussidi pubblici (in primo luogo la Cina). In generale però, la vera forza distruttrice (ma anche creatrice) di figure professionali, non solo negli Stati Uniti, è stata l’innovazione tecnologica: l’avvento del motore a combustione interna ha fatto scomparire gli allevatori di cavalli, usati fino ad allora come mezzo di trasporto, tanto per dire.
Il deficit commerciale Usa è causato dalla scorrettezza degli altri Paesi
Sui manuali di economia, i saldi delle partite correnti non hanno ideologie, ma si limitano a riflettere la differenza tra risparmi e investimenti in un Paese. Se un Paese risparmia più di quanto investe, ha un surplus di partite correnti (è ciò che si rimprovera ossessivamente alla Germania). Al contrario, se un’economia risparmia meno di quanto investe, ecco che avrà un deficit, come appunto accade agli Usa. Corollario: pochissimi economisti seri sono pronti a sostenere che un deficit commerciale si risolve a colpi di dazi.

Dazi e barriere commerciali proteggono produzione e lavoro
Vero, ma solo in parte. Usate correttamente, queste misure sono un rimedio a sussidi e dumping. Usate in modo improprio vanno a scapito dell’interesse generale. La chiusura dei settori economici agli scambi permette la sopravvivenza di sistemi e metodi di produzione inefficienti e distorce l’allocazione degli investimenti. Inoltre, si scarica sui consumatori come una specie di tassa imposta alla collettività (se Paperopoli impone dazi del 10% sulle matite, a pagare l’aumento saranno Qui, Quo e Qua). La gran parte della dottrina economica ritiene i dazi accettabili solo nella fase nascente di un’industria. Mai o quasi nel caso di Paesi avanzati.

La Cina è un campione del multilateralismo
Falso. Per quanto la Cina giochi a vestire questo ruolo, rimane un Paese protezionista, con ampi settori economici schermati da barriere non tariffarie e sostenuti da sussidi. I dazi non sono l’unico strumento per tenere le merci straniere fuori dalla porta. Ci sono anche regolamenti amministrativi, requisiti tecnici, di sicurezza e perfino sanitari, dietro i quali si può celare la mera volontà di proteggere la produzione interna. Alcuni Paesi arrivano a piazzare le dogane in zone poco accessibili del territorio nazionale, in modo da rendere difficili le operazioni amministrative e la distribuzione delle merci.

La Cina ruba tecnologie Usa
Eh sì. A parte cyberspionaggio, attacchi informatici e contraffazioni, negli anni la Cina ha imposto alle società straniere la strada della joint venture con partner locali come unica via d’accesso al mercato. Il «trasferimento» di tecnologie e segreti industriali è quasi inevitabile. Va detto che questo è lo scambio tra multinazionali e Paesi in via di sviluppo: le prime traggono vantaggio dalla manodopera a basso costo (e magari da norme meno rigorose su sicurezza del lavoro, ambiente e salute pubblica) e in cambio cedono ai secondi parte del proprio know how. Chiedere alla Cina di fare di più sul versante della tutela della proprietà intellettuale significa semplicemente chiederle di comportarsi da Paese avanzato, quale ormai può considerarsi.

Con Trump gli Usa sono diventati protezionisti
Falso. Gli Stati Uniti hanno sempre applicato misure protezionistiche. Lo hanno fatto anche durante l’Amministrazione Obama, che pure aveva intavolato i negoziati per i mega-accordi commerciali con Unione Europea e con 11 Paesi del Pacifico, tra cui il Giappone (trattati poi rinnegati da Trump). Vero è che con Trump si assiste a un salto qualitativo (ma ormai anche quantitativo): dal protezionismo al mercantilismo, vale a dire a politiche che non si limitano a tutelare la produzione nazionale, ma si spingono a farlo a svantaggio diretto dei concorrenti. Il caso della Cina è eclatante: la Casa Bianca dichiara espressamente l’intenzione di bloccarne il piano di sviluppo tecnologico (Made in China 2025). Nei confronti della Germania i toni sono solo meno espliciti, almeno per ora.

L’Europa è protezionista sulle auto
I dazi Ue sulle auto sono del 10%, quelli Usa del 2,5%. Tuttavia, nel segmento ormai più redditizio, quello dei Suv (che rientrano nella categoria dei furgoncini e dei veicoli commerciali), le cose stanno al rovescio. I dazi Ue sono sempre del 10%, quelli Usa del 25% e regalano a Ford e General Motors un bel vantaggio rispetto ai competitors stranieri. Non a caso, i costruttori tedeschi sarebbero ben contenti di azzerare completamente i dazi sull’auto.

I dazi possono servire a proteggere i prodotti italiani
Non proprio. Per l’Italia valgono le considerazioni generali già viste. In più, l’Italia è un Paese esportatore, con un surplus commerciale di 47,5 miliardi di euro, il terzo più alto tra gli Stati Ue, dopo quello tedesco (249 miliardi) e quello olandese (70). Immaginare politiche protezionistiche potrebbe allora essere controproducente: come mostrano le cronache di questi giorni, chi erge muri può solo aspettarsi pan per focaccia dal resto del mondo. E poi, le decisioni sui dazi, come sulla politica commerciale nel suo complesso, sono state delegate dall’Italia (e dagli altri Paesi membri) all’Unione Europea. Roma non può far da sé.

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