Nel bene o nel male, Boris Johnson ha sempre avuto un talento: fare notizia. Come giornalista e corrispondente ultra-euroscettico da Bruxelles, come sindaco conservatore di Londra per due mandati, come ministro degli Esteri del governo chiamato a traghettare Londra nel faticoso divorzio dall’Unione europea. E ora come seconda pedina che cade nell’esecutivo di Theresa May, rassegnando le dimissioni appena dopo l’addio del ministro della Brexit Davis Davis. Solo lo scorso venerdì May sembrava aver calmato le acque e convogliato il Parlamento verso la sua strategia di divorzio dal Continente. Oggi il primo ministro si ritrova sempre più in bilico, affossata da una doppia defezione che porta la firma di due figure chiave: Davis e appunto Johnson, eletto allora agli Esteri nella veste di uomo forte della Brexit. A parole e fino ad oggi, almeno a tentativi, anche nei fatti.
Da Eton al governo della Brexit
Nato a New York nel 1964 da due genitori britannici, Johson torna in fretta «sulla sponda giusta della Manica» e cresce nel Regno Unito. Studente di buon livello, passa per Eton (la scuola dell’élite inglese, la stessa di David Cameron) e studia lettere antiche a Oxford, come allievo del Balliol College. Durante gli anni di Oxford coltiva le due passioni che si trasformeranno nella sua vita, il giornalismo e la politica. Johnson entra al Times - pare tramite conoscenze - nel 1987, ma si fa licenziare poco dopo per essersi inventato un virgolettato attribuito allo storico Colin Lucas, che peraltro era il suo padrino. Riesce a farsi assumere successivamente dal Daily Telegraph, un quotidiano conservatore, dove si distinguerà fino al 1994 come corrispondente da Bruxelles per una linea pesantemente euroscettica e sfavorevole all’allora presidente della Commissione Jacques Delors. Tornato a Londra inizia a scrivere come editorialista per il magazine conservatore The Spectator, affinando le sue vocazioni politiche fino all’elezione nel 2001 al Parlamento. Johnson resta a Downing street fino al 2008, insediato al collegio elettorale di Henley, prima del salto che gli darà - ulteriore - notorietà: sindaco di Londra dal 2008 al 2012, riconfermato fino al 2016. L’anno della sua nomina a ministro degli Esteri, dopo essersi speso come uno tra i più accesi «Brexiteer (militanti pro-Brexit, ndr)» fra le file del Partito conservatore.
Dalla nomina alla rottura con Theresa May
La scelta di Johnson come titolare dei Foreign affairs, le questioni internazionali, era stata accolta da qualche ironia e parecchia indignazione. Johnson, accanito isolazionista, si è a lungo distinto per una pratica poco apprezzata negli ambienti diplomatici: gli insulti. Come firma giornalistica e uomo politico è riuscito a collezionare una sequenza memorabile, a modo suo, di gaffe internazionali. Oltre ai trascorsi con la Ue, già descritti, l’ex sindaco di Londra ha scritto che «il problema dell’Africa è che non siamo più al potere», definito Obama «un mezzo kenyote», polemizzato con vari paesi Ue ed extra Ue (inclusa la Cina, accusata di accreditarsi l’invenzione del ping pong) e, in generale, manifestato sempre uno scarso tatto verso gli interlocutori.
Come ministro, alla prova dei fatti, Johnson ha tentato di mantenere la linea dura sul processo di separazione dal Vecchio Continente, salvo incappare in una linea distante sia dal suo governo che dall’elettorato stesso del referendum. Il settimanale britannico The Economist, mai tenero con le sue ambizioni, ha fatto notare che una delle sue principali debolezze è stata quella di travisare la ragione stessa della Brexit: Johnson la immaginava come la via maestra per fare di Londra una specie di «Hong Kong europea», mentre gli elettori chiedevano soprattutto stretta sull’immigrazione e più spesa in welfare. Logico che la conseguenza fosse, scrive sempre l’Economist, una strategia economica «ingenua fino all’irresponsabilità», con la pretesa simultanea di mantenere tutti i benefici (la libera circolazione delle merci) ed eliminare i costi (incluse le politiche sugli ingressi). Fino all’addio, in polemica con May e la piega dei negoziati condotti per due anni. Quando era primo cittadino di Londra, Johnson divenne noto - tanto per cambiare - per un incidente, quando rimase appeso sopra al Tamigi mentre sventolava due bandierine della Union Jack. In teoria il sindaco avrebbe dovuto sfilare da un lato all’altro del fiume su un filo di ferro, uno spettacolo vistoso ma indolore. Quando tornò coi piedi per terra, letteralmente, rispose «Sto bene, grazie» a chi gli chiedeva delle sue condizioni. Oggi, forse, dovrebbe domandarlo a May.
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