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Trump «invade» il campo Fed e critica l’aumento dei tassi

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l’interferenza

Trump «invade» il campo Fed e critica l’aumento dei tassi

Basta con i rialzi dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Donald Trump se la prende con un nuovo “nemico” dei suoi piani di far grande l’America e questa volta è direttamente la Banca centrale statunitense, colpevole di meno generose strategie di stimolo.

Poco importa che alla guida ci sia oggi un chairman nominato da lui stesso, Jerome Powell, o che l’obiettivo della Fed sia preservare l’espansione da rischi di squilibri. Ancor meno importa che, nel prendere posizione sulla politica monetaria dal pulpito della Casa Bianca, abbia spezzato un nuovo tabù, che da decenni vede custodita l’indipendenza della Fed quale miglior garanzia per la stabilità economica e dei mercati.

Trump non è stato ambiguo: «Non sono contento» delle strette, ha affermato alla rete tv Cnbc.

La Fed ha finora alzato due volte i tassi da inizio anno e solo nei giorni scorsi al Congresso Powell ha indicato che l’economia appare in buona salute e che per proteggerla sono ipotizzabili ulteriori graduali interventi, probabilmente altri due entro fine anno.

Durante interviste, Powell ha anche aggiunto che la Fed ha ormai una lunga tradizione di decisioni scevre da immediate considerazioni politico-partitiche. Ma Trump ha però sostenuto che «non potrebbe importarmene di meno» di violare norme non scritte. Una vocazione chiara nel suo primo stralcio di presidenza anche su economia e business: si è sbilanciato in attacchi a singole aziende - Amazon su tutte - come in commenti sui prezzi del petrolio. Un attacco sostenuto alla Fed, però, avrebbe una posta in gioco ben più alta, considerando l’influenza e la necessaria credibilità dell’istituzione. Un prezzo che pare disposto a pagare: alla vigilia delle elezioni di metà mandato, forse gli preme anzitutto “surriscaldare” subito la crescita oltre il 3%, come promesso nei comizi.

Ma le politiche economiche di Trump hanno ieri sollevato polemiche anche su un altro fronte caldo, il commercio, dove in discussione è il libero scambio con gli alleati. La Corporate America si è mobilitata per contrastare l’escalation di dazi sul cruciale settore dell’auto. Una presa di posizione scattata durante audizioni del dipartimento del Commercio nell’ambito dell’inchiesta per determinare se esistano ragioni di sicurezza nazionale tali da penalizzare l’import di vetture e componenti. La generale opposizione ai dazi di associazioni di produttori e concessionari ha spinto il segretario al Commercio Wilbur Ross a dichiarare che «è troppo presto» per sapere se ci saranno sanzioni.

La controffensiva delle imprese non ha però finora smosso Trump, che ha preparato un incontro con il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker il 25 luglio alla Casa Bianca con parole dure: «Se non negoziamo qualcosa di giusto, avremo terribili rappresaglie. Compresa l’auto». Le cifre in gioco sono testimoni: l’anno scorso l’import Usa di vetture e parti ha superato i 350 miliardi, un quinto dall’Europa.

Tutto potrebbe essere soggetto a dazi del 20-25 per cento. La Ue, accanto a sforzi diplomatici, sta preparando risposte che mettono nel mirino beni Usa pari al 20% dell’azione americana, 18 miliardi da ketch-up a uva passa, da valigie a borse, da pesce surgelato a bende adesive. “Stiamo approntando assieme ai nostri stati membri una lista di provvedimenti di riequilibrio”, ha detto il commissario al Commercio Cecilia Malmström.

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