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Perché la lira turca è crollata. Trump esulta e aumenta i dazi

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erdogan e i mercati

Perché la lira turca è crollata. Trump esulta e aumenta i dazi

La crisi valutaria turca è talmente complessa che nemmeno l’invocazione di Erdogan ad Allah servirà ad attenuare la disfatta della lira sui mercati internazionali, a meno che Ankara non si rassegni ad adottare misure la cui ortodossia è però fortemente avversata dallo stesso presidente.

Le ragioni geopolitiche
La crisi ha radici geopolitiche, monetarie e macroeconomiche. Il primo aspetto è legato sia alla svolta autoritaria impressa al Paese con la nascita di una Repubblica presidenziale che concentra nelle proprie mani ogni potere (anche quello di nominare direttamente il governatore della banca centrale) sia al deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti dopo l’arresto in Turchia, con l’accusa di spionaggio e terrorismo, del pastore americano Andrew Brunson, e al quale la Casa Bianca ha risposto all’inizio di agosto imponendo sanzioni nei confronti di due ministri (Interno e Giustizia) del governo Erdogan. Mentre oggi Trump ha annunciato il raddoppio dei dazi su alluminio e acciaio turchi rispettivamente al 20% e al 50 per cento.

La politica monetaria
Le sanzioni però, misura rara nei confronti di un Paese della Nato da parte degli Stati Uniti, rappresentano solo l’elemento scatenante di una situazione preoccupante da mesi e qui entra in gioco il secondo fattore, la politica monetaria. L’economia turca corre e corre troppo. Con una crescita che nel 2017 è stata superiore al 7% ed è stata in buona parte alimentata dalla concessione di credito facile a imprese e famiglie, è in fase di surriscaldamento:l’inflazione è ormai al 16%. In luglio gli investitori internazionali si aspettavano un aumento dei tassi d’interesse della Banca centrale, che però non c’è stato. Erdogan con le nuove prerogative presidenziali ha il potere di nomina del governatore e in maggio aveva spiegato a Londra di voler influenzare direttamente la politica monetaria e di essere contrario all’aumento del costo del denaro perché in realtà avrebbe creato più inflazione invece di ridurla.

Le debolezze macroeconomiche
Di fronte a un simile atteggiamento la preoccupazione degli investitori esteri è aumentata esponenzialmente dopo le elezioni di giugno, che hanno visto la grande vittoria di Erdogan e la nascita della nuova repubblica presidenziale. Da lì in avanti, più della crescita portentosa, delle promesse di investimenti miliardari nelle grandi opere infrastrutturali, di un debito pubblico bassissimo (28,5% del Pil) hanno pesato una serie di elementi macroeconomici che spiegano la terza ragione della crisi e la fuga di capitali: un deficit delle partite correnti al 6% del Prodotto interno lordo e un indebitamento estero ormai al 53% del Pil e per due terzi attribuibile al settore privato (banche e imprese) con scadenze importanti di rimborso (70 miliardi) da qui al marzo 2019.

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