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Commercio, dazi e BTp. Il governo italiano alla campagna di Cina

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la missione a pechino del ministro tria

Commercio, dazi e BTp. Il governo italiano alla campagna di Cina

È stato soprattutto il calendario a concentrare sui titoli di Stato l’attenzione degli osservatori in vista della missione cinese di Giovanni Tria. Il ministro dell’Economia è decollato per la sua prima visita ufficiale fuori dai confini della Ue mentre lo spread è a 281, le tensioni con Bruxelles su manovra e migranti sono in rapida risalita e sta per partire la stagione delle revisioni dei rating, che si aprirà venerdì con Fitch quando il ministro sarà in visita alla business community di Shanghai.

Ma l’idea della trasferta in Cina, paese al centro degli interessi e dei viaggi del professor Tria quando la poltrona ministeriale non era nemmeno tra le ipotesi, è nata prima, si è consolidata a luglio nel primo incontro con il collega cinese Liu Kun al G20 argentino e si è precisata con date e programmi all’inizio di agosto. E punta su un dialogo a due, fatto di accordi bilaterali, per allargare gli «spazi di sicurezza» dalle ricadute di un avvitamento sui dazi che per l’Italia continua a rappresentare uno dei rischi più pesanti.

Il Def di aprile, l’ultimo targato Padoan, aveva lanciato l’allarme sul fatto che un cortocircuito commerciale potrebbe tagliare la crescita di 7-8 decimi di Pil, fin quasi a cancellare la stentatissima ripresa italiana, e in un quadro come questo l’apertura di canali preferenziali con la Cina potrebbe rappresentare un ombrello importante contro la tempesta dei dazi. Proprio la Cina (+22%) l’anno scorso ha preceduto Russia e Brasile (+19%) nella crescita delle esportazioni italiane, e per un export che per la prima volta da anni ha superato in crescita di volumi (+5,4%) la media europea la costruzione di queste «protezioni anti-protezionismo» può essere una via per consolidare quella che altrimenti è destinata a rivelarsi solo una piccola fiammata.

Per questa ragione ad accompagnare Tria nella sua settimana cinese ci sarà il neo amministratore delegato di Cdp Fabrizio Palermo. In programma c’è infatti la firma di importanti accordi commerciali con partner finanziari per lo sviluppo di investimenti italiani in Cina e cominciare a tradurre in atto le potenzialità di un mercato sterminato quanto finora trascurato dagli italiani, rimasti in seconda fila rispetto all’attivismo dei concorrenti tedeschi e francesi. La prova è nello squilibrio della bilancia commerciale (l’Italia esporta in Cina per 16 miliardi di dollari, la metà di quello che importa) al centro anche della missione parallela che negli stessi giorni vede in Cina il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci.

Il viaggio, che sul piano istituzionale segue la strada tracciata dal Capo dello Stato Sergio Mattarella con la sua trasferta cinese di febbraio, ha allora uno scopo unico declinato in due direzioni: far crescere il peso italiano nel maxi-piano di investimenti infrastrutturali legati alla nuova Via della Seta, la Belt and Road Initiative, e allargare gli spazi per imprese e prodotti italiani nel mercato cinese che ancora oggi rappresenta più un’opportunità che una realizzazione effettiva. Accanto a Tria e Palermo, al vicedirettore di Bankitalia Fabio Panetta e ai vertici di Snam e Fincantieri in base ai nomi circolati nei giorni scorsi, in delegazione ci sarà la responsabile dei rapporti internazionali del Tesoro Gelsomina Vigliotti e consiglieri del ministro che hanno seguito la sua attività “orientale” come Daniela Skendaj.

Il nodo BTp
In questa agenda non ci sono ufficialmente i titoli di Stato, e della delegazione non fa parte il direttore del Debito pubblico Davide Iacovoni. Ma in tempi di forti uscite degli investitori stranieri dai BTp, compensate solo in parte dagli acquisti di banche e assicurazioni di casa nostra, la questione titoli di Stato resta legata a doppio filo con la ricerca di capitali stranieri.L’Italia ha registrato un drastico deterioramento della fiducia degli investitori esteri. L’impennata dello spread è coincisa con forti vendite di BTp da parte degli investitori esteri che, tra maggio e giugno, hanno ridotto la loro esposizione di 58 miliardi. In mancanza di un sostegno da parte della Bce, vista la programmata fine degli acquisti, l’unica soluzione rischia di essere trovare nuovi canali di finanziamento.

Il ministro degli affari europei Paolo Savona ha parlato in Parlamento dell’ipotesi di chiedere alla Russia di farsi garante del nostro debito. Ma è presumibile che Mosca voglia usare i suoi 460 miliardi di dollari di riserve per arginare il crollo del rublo (-17% in sei mesi) più che per comprare BTp. Nei giorni scorsi si è parlato anche di un aiuto dagli Usa, che però non hanno nè fondi sovrani nè istituzioni finanziarie direttamente “influenzabili” dal Governo. Altro discorso vale per la Cina. Con oltre tremila miliardi di dollari di riserve a disposizione della State Administration of Foreign Exchange (Safe, l’ente di Stato che gestisce le riserve in valuta estera) e un ammontare potenzialmente sterminato di risorse liquide in capo a banche e società finanziarie direttamente o indirettamente controllate dal governo centrale la Cina ha tutte le armi che servono per disinnescare una speculazione finanziaria che avesse oggetto il nostro debito pubblico.

Finora la Cina è nota per essere il secondo maggior investitore in titoli governativi americani, ma se sugli oltre mille miliardi di Treasury detenuti da Pechino c’è trasparenza (la Fed pubblica le statistiche sui detentori dei titoli Usa) minori sono invece le informazioni sulle partecipazioni europee. Le stime parlano di numeri trascurabili. Il 5% del debito pubblico italiano che, stando ai calcoli di Nomura, è in mano a investitori extra-europei fa capo per lo più a fondi americani e giapponesi. «La presenza cinese si limita ai grandi fondi obbligazionari che in genere hanno un portafoglio molto differenziato che replica le proporzioni dei principali indici globali», spiega Domenico Rizzuto di DR Finance consulting. «Sul mercato primario non si ha evidenza di massicci acquisti provenienti da controparti cinesi o asiatiche in genere» conferma un operatore di un importante istituto bancario italiano. Ciò non toglie che nomi come la Agricultural Bank of China o la stessa Safe, aggiunge l’operatore, figurino in maniera abbastanza ricorrente nei collocamenti di titoli corporate europei o anche di titoli di Stato italiani «ma raramente con ordini rilevanti». Del resto il più recente collocamento attraverso sindacato del BTp a 20 anni avvenuto lo scorso gennaio (per il quale il Tesoro pubblica il dettaglio sulle richieste) non lascia spazio a illusioni: solo lo 0,5% è finito a investitori asiatici.

La Via della Seta
La Cina, come qualunque altro investitore, non fa nulla per nulla ed un suo eventuale intervento è vincolato alle contropartite l’Italia è disposta a offrire. La Repubblica popolare - fanno notare alcuni osservatori delle vicende politiche cinesi - ha interesse a consolidare i rapporti con il nostro Paese. Pechino ha espresso l’intenzione di investire nei porti di Trieste, Venezia e Genova nell’ambito del progetto della Via della Seta. Sempre nell’ambito di questo piano l’Italia ha molto da offrire in termini di know-how tecnologico. C’è tuttavia chi dubita che, in questa partita, ci sia posto per negoziare acquisti di BoT e BTp. «La Cina - spiega Alberto Forchielli di Mandarin Capital Partners - non ha avuto problemi a staccare un assegno da un miliardo di dollari per salvare dalla crisi finanziaria il Pakistan (altro Paese chiave per il progetto Via della Seta). Per l’Italia parliamo di cifre ben diverse. Siamo nell’ordine di centinaia di miliardi... È vero che la Cina ha le risorse ma non sono così convinto che sia disposto a utilizzarle per comprare BTp». Una mossa del genere - fanno notare altri - rischia oltretutto di essere percepita come un’indebita ingerenza negli affari europei da parte di Francia e Germania.

Il caso Treasury
E se la Cina dovesse poi acquistare davvero BTp, che investitore sarebbe? L’opinione comune è che le decisioni prese da Pechino prescindano spesso dalla pura convenienza finanziaria e siano legate più a ragioni politiche, ma quando si parla di Cina non si può dare mai molto per scontato. L’esempio di fronte agli occhi è proprio quello dei titoli di Stato Usa, sui quali (nonostante i timori) ben poco è cambiato negli ultimi mesi nonostante le scintille sui dazi fra i due Paesi. «Da circa un anno l’ammontare di Treasury detenuto dalla Cina resta intorno ai 1.180 miliardi di dollari e quando si considera anche la quota di Belgio e Irlanda, paesi attraverso i quali spesso vengono effettuati ulteriori acquisti, la cifra è piuttosto stabile», nota Antonio Cesarano, Chief Global Strategist di Intermonte Sim: un segnale abbastanza esplicito del fatto che «malgrado l’inizio della guerra commerciale, per ora le ritorsioni cinesi sono state sul mercato valutario ma non su quello obbligazionario».

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