L’ultima provocazione è arrivata domenica, quando il vicepremier Matteo Salvini ha parlato di «sfiorare dolcemente» il vincolo europeo del 3% sul deficit. Un gioco di parole che lascia trasparire, una volta di più, l’insofferenza per le
regole del budget comunitario e - i presunti - effetti restrittivi dell’Europa sulla crescita economica e il «benessere dei
cittadini italiani». Il governo gialloverde sembra aver accantonato i propositi di uscita dall’euro e il divorzio dall’Unione
europea, salvo mantenere uno scetticismo di base sull’integrazione economica del Vecchio Continente.
Ma l’Italia vivrebbe davvero meglio senza la Ue alle spalle? A dare un occhio ai numeri dei principali “ingranaggi” dell’economia europea, sembra vero il contrario. Il divorzio dalla Ue si tradurrebbe in una serie di contraccolpi su bilancia commerciale (import-export), fondi comunitari, l’accesso a standard internazionali e la stessa sicurezza del Paese.
Senza l’Ue «esporteremmo di più»? Dipende
Il grande classico del caso è che l’Italia «esporterebbe di più» senza l’Ue, in questo caso alludendo a un divorzio dall’euro
e al ritorno a una valuta nazionale. Semplificando molto, la tesi è che un’Italia sottratta ai vincoli della moneta unica
sarebbe libera di svalutare il suo conio (la lira), aumentando l’attrattività dei suoi prodotti verso l’estero: se la merce
costa di meno sarà più facile acquistarla, imprimendo una spinta decisiva ai volumi delle esportazioni. Non che il trend sia
in calo, anzi. L’Italia ha chiuso il 2017 con 448,1 miliardi di euro in esportazioni (+7,4% rispetto al 2016 ) e 400,6
miliardi di euro in importazioni (+9%), pari a un saldo (differenza entrate-uscite) in positivo per 47,5 miliardi di euro.
Senza euro e senza Ue si manterrebbero ritmi simili? La risposta rischia di essere di no.
«Sono logiche di manuali di economia vecchi di 30 anni, inadatti in un mondo dove l’80% delle vendite è intermediato dalle multinazionali» fa notare Carlo Altomonte, professore di economia politica all’università Bocconi. L’equazione fra svalutazione e aumento delle vendite, spiega Altomonte, si poteva reggere su un modello molto basilare di interscambio, dove un paese A (ad esempio l’Italia) vendeva i suoi prodotti finiti al paese B (come gli Stati Uniti). Ma il meccanismo è scomparso nell’era della global value chain, la «catena globale» dove varie fasi di produzione sono dislocate nei paesi più convenienti, facendo sì che qualsiasi articolo finale (iPhone, vetture, robot...) sia il frutto di una filiera internazionale. Il risultato è che il nostro paese, come tutti, ha bisogno di importare alcuni prodotti per realizzarne altri, a propria volta rivenduti a partner esteri. In caso di svalutazione, l’Italia si troverebbe a esportare a prezzo minore (perché la sua moneta vale meno) e importare a prezzo maggiore (sempre perché la sua moneta vale di meno).
Addio ai fondi comunitari
Uscire dall’Ue significherebbe rinunciare ai fondi europei, i finanziamenti elargiti da Bruxelles per attivare progetti su
larga scala, dall’agricoltura allo sviluppo tecnologico. L’Italia ne ha beneficiato con 9,6 miliardi di euro nel 2014, 12,3
miliardi nel 2015, 11,5 miliardi di euro nel 2016 e 9,8 miliardi nel 2017. È vero che il nostro paese figura fra i «contributori
netti», i paesi che versano più di quanto ricevono, con un saldo in positivo di 2,2 miliardi di euro anche nel 2017. Ma l’afflusso
di finanziamenti comunitari non è solo questione di aritmetica, nel senso che il budget annuo dell’Ue ha un impatto concreto a seconda di come vengono (o non vengono) spesi i soldi. Per
fare qualche esempio , l’Italia haattinto all’11% del Fondo europeo di sviluppo regionale (2,4 miliardi di euro) e a 3,8 miliardi di euro di investimenti in sette anni da un altro programma, il Connecting Europe Facility (Cef). Una cifra
diluita in progetti in corso d’opera, dai 481 milioni di euro alla Tav Torino-Lione ai 590 milioni di euro al tunnel del
Brennero. Senza dimenticare il bacino dell’R&D (addio a programmi come Horizon 2020, lo strumento per finanziare progetti
innovativi) e iniziative per la mobilità (a partire dall’Erasmus, oggi Erasmus+, a beneficio di 32.109 studenti italiani
nell’anno accademico 2017-2018).
Il problema delle certificazioni (e della sicurezza)
La Brexit insegna. Uno dei dossier più ostici per la sopravvivenza fuori dall’Unione europea sarebbero gli standard internazionali,
le garanzie di qualità decise su scala comunitaria. Certificazioni, “bollini” e parametri unici che consentono di uniformare
le regole fra più paesi, facilitando l’interscambio. Senza il cappello delle norme comunitarie, l’Italia dovrebbe adeguarsi
ai parametri fissati da altri. Anche, e soprattutto, in settori sensibili per le nostre esportazioni come l’agroalimentare:
«Ad esempio, per commerciare con l’Europa dovremmo abituarci a a standard che ci penalizzano - dice Altomonte - Non è difficile
pensare a esiti come il “parmesan” tedesco o altri prodotti a nostro discapito».
Parlando di altri standard, l’Italia si troverebbe isolata dal punto di vista dell’allerta terroristica. L’estraneità alla Ue sbarrerebbe l’accesso a strumenti come lo Schengen information system II (Sis II), un sistema di informazioni centralizzato che sostiene i controlli alle frontiere esterne Schengen e potenzia la cooperazione fra i vari corpi di polizia nazionale. Secondo dati citati dal quotidiano britannico Guardian e riferiti al 2017, il database contiene informazioni su 36mila sospetti criminali, oltre 100mila «mancanti» e mezzo milione di cittadini extra-Ue che si sono visti negare l’accesso all’Unione europea. Anche in questo caso, lo scenario Brexit è istruttivo. I vertici della polizia britannica hanno lanciato l’allarme sulle conseguenze di un divorzio «no-deal», l’uscita dall’Ue senza accordi bilaterali. A preoccupare è soprattutto la perdita del Sis II, un vuoto che «comporterebbe rischi per la comunità locale». Solo nel 2017 gli agenti di Sua Maestà hanno consultato il maxi-registro Ue un totale di 579 milioni di volte.
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