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Brexit, cosa cambierà (in peggio) per noi se salta…

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IL DIVORZIO DALL’UNIONE EUROPEA

Brexit, cosa cambierà (in peggio) per noi se salta l’accordo

Era un incubo. È diventata, e resta, un’ipotesi che non può essere esclusa. Lo scenario di una Brexit no deal, il divorzio tra Gran Bretagna e Ue senza intese bilaterali, ha preso corpo dopo mesi di flop diplomatici nella ricerca di un accordo. Oggi il ministro per la uscita dalla Ue, Dominic Raab, ha incontrato il negoziatore della Ue Michel Barnier per l’ennesimo round di negoziati. L’atmosfera è «ottimista» e si è parlato anche di una scadenza temporale per l’intesa: ottobre, in concomitanza con il Consiglio europeo.

Nell’attesa, però, Downing street sta correndo ai ripari. Il governo britannico ha iniziato a pubblicare una serie di documenti tecnici con le linee guida per le sue imprese e cittadini in caso di Hard Brexit, anche per rivendicare di essersi già attrezzato in caso di una rottura senza compromessi con la Ue. Ma cosa cambierebbe, sull’altra sponda della Manica, per i cittadini europei (e italiani)? Proviamo a vederlo con qualche caso concreto.

Gli studenti pagheranno di più?
Per il momento, no. Il ministro dell’Istruzione britannico Damian Hints ha confermato a luglio che gli studenti della Ue (quindi anche gli italiani) continueranno a beneficiarenel 2019-2020 della condizione di home fee status: in altre parole a pagare le stesse rette dei coetanei britannici, fissate a un massimo di 9.250 sterline, senza essere equiparati ai colleghi in arrivo dal resto del mondo (costretti a sobbarcarsi spese che si spingono oltre le 30mila sterline). Buone nuove anche per le matricole interessate alla Scozia, dove gli studenti Ue sono esentati dalle tasse universitarie per tutti i corsi triennali: il bonus resta, sempre fino al 2019-2020. E poi? Dipenderà dai negoziati. È probabile, però, che una Brexit no-deal costi agli studenti Ue «l'equiparazione agli extra europei, con rette dunque decisamente più elevate e impossibilità di accedere ai prestiti agevolati» fa notare Alessandro Belluzzo, managing partner di uno studio legale omonimo con una sede a Londra.

La speranza, per le aspiranti matricole, è che prevalga la politica accomodante sposata finora anche dai «Brexiter» più accaniti. Un report di Higher Education Policy Institute e Kaplan International Pathways, due società di ricerca, ha evidenziato che i 438mila studenti internazionali iscritti negli istituti britannici producono un beneficio netto di 20,3 miliardi di sterline per le casse del Paese. Penalizzare gli studenti Ue equivarrebbe a mettere a rischio un giro d’affari di oltre 4 miliardi di sterline fra rette, affitti, spese d’ordinanza e l’indotto di parenti e amici in visita al paese.

E per chi vuole vivere o trasferirsi nel Regno Unito?
Il governo britannico aveva predisposto dal marzo 2019 il «settled status», una procedura che consente ai cittadini europei di di certificare la propria residenza nel paese. La scadenza per fare domanda è al 30 giugno 2021. “Aveva” perché, in caso di Brexit no-deal, non è chiaro che fine potrebbe fare il programma e la sua intenzione di garantire una corsia agevolata ai cittadini Ue. «Il sistema - fanno sapere dallo studio Belluzzo - Potrebbe subire delle restrizioni, magari con l'implementazione della politica dei visti anche nei confronti di chi già risiede nel Paese». Il consiglio fornito dagli studi legali è di affrettarsi a richiedere il residency permit, la cittadinanza britannica, anche se la domanda presuppone almeno cinque anni di residenza.

Imprese, export a rischio
Dolori in arrivo anche, o meglio, soprattutto per le imprese che vendono nel Regno Unito. Solo nei primi quattro mesi del 2018 le aziende italiane hanno messo a segno esportazioni per 7,3 miliardi di euro, con una quota di oltre 3 miliardi generata da agroalimentare (2 miliardi) e bevande (1 miliardo: solo il vino incide per oltre 800 milioni di euro). In caso di flop degli accordi di libero scambio, uno dei tasti più delicati nelle trattative fra Londra e Bruxelles, il bilancio sarebbe appesantito da una serie di fattori: dazi e conseguente rialzo dei prezzi sulle merce importata (vedi sotto), svalutazione del cambio sterlina-euro, ostacoli sulla certificazione di qualità di nostri prodotti (dai formaggi al prosecco, reduce da una crescita vertiginosa negli acquisti della clientela britannica).

E le tasse?
Se si parla di politica fiscale, il Regno Unito dovrebbe proseguire con la sua strategia di taglio della corporate tax, la tassa sul reddito di impresa: l’obiettivo è di arrivare a un’aliquota del 17% dal 2020 in poi, rincorrendo la guerra al fisco low cost ingaggiata dai vicini di casa dell’Irlanda (dove l’aliquota si ferma al 12,5%). Gli effetti più concreti si registrerebbero invece su dogane e imposte dirette, con l’applicazione di dazi e strascichi sul sistema Iva: «L'imposta - dice Belluzzo - dovrò essere anticipata dall'importatore in dogana con conseguenze finanziarie dovute all'anticipazione dell'imposta».

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