L’accordo su Brexit c’è quasi, a grandi linee è stato definito, titola il Financial Times citando il capo negoziatore Ue Michel Barnier, ora manca l’appoggio politico. «Restano ancora non risolte alcune questioni chiave come il confine Irlanda - Irlanda del Nord» recita il comunicato del Consiglio che riporta le informazioni rese dallo stesso Barnier agli altri 27 Paesi.
A leggere bene la notizia di stampa e il dispaccio ufficiale non vi è però molta differenza: il testo con cui la Gran Bretagna si separa dall’Unione europea sarebbe pronto, la questione dei confini irlandesi che da mesi agita il governo di Londra e rallenta i negoziati è una delle questioni che più politica non potrebbe essere. Ed è qui che tutto si blocca: ha Teresa May la forza di proporre e imporre un accordo al suo governo e alla sua maggioranza? Perché è nel Regno che si decide se effettivamente la data del 29 marzo 2019 sarà un più o meno quieto passaggio dallo status di membro Ue a quello di partner o un salto nel vuoto senza un accordo che farebbe male soprattutto alla Gran Bretagna e getterebbe nel panico i mercati - venerdì scorso in una nota ai suoi clienti Goldman Sachs si diceva sicura di un accordo la cui probabilità stimava al 70 per cento.
È dunque una questione politica, lo è sempre stata, la differenza è che adesso non si può più negare. In un’epoca in cui la parola si aborre, la mediazione si fugge, l’indignazione prevale, uno dei voti simbolo di questi anni - il referendum per Brexit del giugno 2016 - si riduce alla difficoltà di un compromesso. Era ovvio che sarebbe finita così. Che un voto sì/no non poteva risolvere l’indicibile scontento dei metà dei britannici, il 52% che solo due anni fa ha deciso l’addio all’Unione europea. Che nonostante i proclami, i leader funambolici come Nigel Farage e Borsi Jonhson, le tante chiacchiere sulla diversità degli inglesi e la forza della loro economia così distante dalle lentezze belghe, alla fine il problema sarebbe stato in casa. Perché ora una vera maggioranza dentro al parlamento britannico non c’è, forse non c’è mai stata.
Theresa May, la donna che ha in mano i destini di questo accordo, è una leader perennemente debole ma non abbastanza da essere abbattuta dai suoi nemici. Domani, secondo quanto anticipa FT, Barnier dovrebbe presentare il testo al governo britannico ben consapevole che si troverà una controparte divisa. Che questo piano d’addio che assicura stretti rapporti commerciali tra i britannici e l’Unione non piace agli europeisti, ancor meno ai Brexiteers e certo non convince quegli unionisti nordirlandesi che appoggiano il governo May dal giugno 2017, da quando cioè la premier Tory ha perso la maggioranza assoluta in parlamento con elezioni politiche che aveva improvvisamente indetto in primavera. Ora non ha neanche un partito unito alle spalle con un gruppetto di deputati che da mesi lavora per defenestrarla. In più tre ex premier - due laburisti e un conservatore - Tony Blair, Gordon Brown e John Major sostengono apertamente la necessità di un secondo referendum.
I sondaggi danno ancora, oggi come due anni fa, un Paese profondamente diviso. Il maggiore ostacolo a un secondo voto nasce non solo dal fatto che la premier si oppone con tutte le sue forze a simile eventualità ma anche da uno dei più probabili scenari: se il parlamento britannico boccerà l’accordo raggiunto da May con Barnier, l’opposizione laburista non chiederà un secondo referendum ma nuove elezioni politiche, il che non costituisce una negazione di un secondo voto su Brexit ma neanche una sua accelerazione.
Un secondo referendum sarebbe possibile solo con un voto parlamentare che si esprimesse in questo senso, possibilità sia esclusa dai Brexiteers, secondo i quali un’altra consultazione sullo stesso quesito porterebbe dritti a una crisi costituzionale, sia dai vecchi leader del Labour, il capo Jeremy Corbyn e il cancelliere dello scacchiere ombra John McDonnell, la vecchia guardia che ha vinto il congresso annuale del partito a settembre con una mozione che chiede le urne solo per nuove elezioni politiche.
Quella di questa settimana non è comunque l’ultima chiamata per un accordo. Il summit Ue ultimo su Brexit è fissato per il
13 e 14 dicembre, i tempi sarebbero però ancora più stretti di quanto lo siano già adesso: una settimana dopo, il 20 dicembre,
il tormentato parlamento britannico va in vacanza.
© Riproduzione riservata