Rischia di arenarsi, di nuovo, il negoziato tra Stati Uniti e Cina sul commercio. Il principale nodo da sciogliere si conferma quello delle tecnologie, addirittura più complesso rispetto alla questione del deficit commerciale Usa (323 miliardi dollari l’anno scorso nel saldo del solo scambio di beni). La partita che si gioca sullo sfondo delle schermaglie sui dazi ha come posta in palio l’egemonia nei settori più avanzati dell’industria, l’economia del futuro, che Washington teme di perdere.
Come ormai da copione, a una serie di dichiarazioni ottimistiche del presidente Donald Trump («I negoziati stanno andando bene, l’accordo si farà», ha detto il 19 gennaio) e di segnali positivi forse sopravvalutati, segue una battuta d’arresto. Secondo un’esclusiva pubblicata ieri sera dal Financial Times, ma smentita dall’Amministrazione Usa, la Casa Bianca ritiene non si stiano facendo progressi e avrebbe detto no a un incontro a Washington per questa settimana. Due vice-ministri, Wang Shouwen (Commercio) e Liao Min (Finanze), dovevano arrivare nella capitale per preparare la visita del vice-premier Liu He, in programma per il 30 e 31 gennaio. Liu incontrerà il capo-negoziatore Robert Lighthizer, rappresentate per il Commercio degli Stati Uniti, il più falco del team Trump. Per il consulente economico della Casa Bianca, Larry Kudlow, nessun «incontro preparatorio» è stato cancellato: «La storia non è vera», ha detto alla Cnbc.
Oggi, la ricostruzione del Financial Times trova conferma nelle dichiarazioni di fonti anonime dell’Amministrazione Usa, riportate dall’agenzia Reuters: «Le nostre preoccupazioni non sono state adeguatamente affrontate».
Secondo l’autorevole quotidiano britannico, a far saltare l’incontro negoziale di questa settimana sarebbe stata la frustrazione della Casa Bianca per lo stallo sullo “scippo” di tecnologie ai danni delle aziende Usa e sulle riforme strutturali chieste a Pechino. La Cina dovrebbe impegnarsi a ridimensionare il ruolo delle sue aziende pubbliche e cancellare i sussidi e le politiche industriali accusate di avvantaggiarle sui mercati esteri. Non solo. La Casa Bianca vorrebbe che Pechino rinunciasse al piano «Made in China 2025», lanciato dal presidente Xi Jinping per raggiungere il primato nei settori economici più avanzati. Sacrifici molto pesanti, anche in una fase di frenata della crescita.
Sul tavolo di Lighthizer è appena arrivato un report congiunto della Camera di commercio Usa e della Camera di commercio americana in Cina: nelle sue 142 pagine non si fa menzione del deficit commerciale Usa, ma si dedica molta attenzione a evidenziare con quanta decisione Pechino stia applicando il suo piano Made in China 2025, che punta a fare del Paese il leader in settori come robotica, veicoli elettrici, aerospazio.
La Casa Bianca aveva chiesto che i negoziatori cinesi arrivassero a Washington con un’offerta scritta, un documento che indicasse in quale modo Pechino intenda “eseguire” le richieste americane. La Cina, tuttavia, respinge l’accusa di costringere le aziende Usa a cedere i propri segreti industriali ai loro partner locali, come condizione per poter operare nel Paese, e non intende fare passi indietro. Pechino, anzi, sottolinea che la recente offerta di aprire il proprio mercato agli investitori esteri è già un passo nella direzione indicata da Washington.
Dove Pechino è invece propensa a fare concessioni è proprio sul versante del deficit commerciale. I suoi negoziatori sono pronti a promettere l’acquisto di maggiori quantità di grano e soia statunitensi, se i negoziati andranno a buon fine. Come ritorsione alle tariffe di Trump, lo scorso anno Pechino aveva imposto extra-dazi del 25% sull’alimentare Usa, andando a colpire il bacino elettorale del Partito repubblicano. La Cina si è già offerta di ridurre in modo consistente lo squilibrio nello scambio di beni nel giro di sei anni. I dati di dicembre, intanto, dicono che le importazioni cinesi di sorgo Usa si sono azzerate. Prima della guerra dei dazi, gli Stati Uniti fornivano alla Cina il 94% delle sue forniture dall’estero.
Il tempo intanto scorre: il 1° marzo scade la tregua con la quale gli Usa hanno congelato i dazi già programmati a partire dal 1° gennaio del 2019. Senza accordi o proroghe, su 200 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina, gli extra balzelli del 10% già in vigore verrebbero portati al 25 per cento. La ritorsione cinese sarebbe automatica e l’escalation inevitabile, come le ripercussioni sui mercati finanziari, in una prevedibile riedizione della volatilità già sperimentata a fine 2018. Se ne sono viste le avvisaglie già ieri: dopo l’articolo pubblicato sul sito del Financial Times, Wall Street ha accelerato le perdite.
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