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Brexit, dalla farmaceutica alle banche: la grande fuga da Londra

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tra no deal e ipotesi rinvio

Brexit, dalla farmaceutica alle banche: la grande fuga da Londra

Ieri Sony, ieri l’altro Dyson, domani chi altro? Ogni giorno sembra portare l’annuncio di un’impresa che intende lasciarsi alle spalle la Gran Bretagna e tutte le incertezze legate a Brexit. La data di uscita dall’Unione Europea è fissata al 29 marzo, l’accordo con la Ue proposto dal Governo è stato bocciato dal Parlamento e finora la premier Theresa May non ha voluto escludere un “no deal”, pur ammettendo che avrebbe un impatto negativo sull’economia.

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Il conto alla rovescia è quindi iniziato, ma mentre ministri e deputati discutono le varie opzioni possibili, le imprese sono costrette a prendere decisioni concrete per tutelare il business. Sony ha annunciato ieri che trasferirà il quartier generale da Londra all’Olanda collegando esplicitamente la decisione ai rischi di Brexit. «Abbiamo dovuto agire per garantire la continuità delle nostre operazioni» dopo il 29 marzo, ha detto un portavoce del gruppo.

EFFETTO BREXIT
I grandi gruppo che lasciano l'Inghilterra

Il colosso elettronico giapponese in dicembre ha aperto una nuova società in Olanda che entro fine marzo sarà fusa con Sony Europe, attualmente basata a Londra. Sony non intende licenziare i 900 dipendenti e continuerà ad avere una presenza in Gran Bretagna, ma trasferendo la sede nella Ue potrà restare legalmente nel mercato unico e non sarà costretta a fare costosi cambiamenti come modificare le etichette dei prodotti.

Le società giapponesi, che hanno immensi investimenti in Gran Bretagna, hanno più volte sottolineato i rischi di una Brexit “disordinata”. Lo stesso premier Shinzo Abe durante una visita ufficiale due settimane fa aveva avvertito che un’uscita dalla Ue senza accordo avrebbe creato gravi danni per le imprese giapponesi, che danno lavoro a 150mila persone in Gran Bretagna.

In settembre Panasonic, rivale di Sony, aveva trasferito la sede europea a Amsterdam per evitare problemi amministrativi e fiscali dovuti a Brexit. La Netherlands Foreign Investment Agency ha confermato ieri che sono in contatto con «oltre 250 società basate in Gran Bretagna che vogliono trasferire la loro sede in Olanda».

Non sono solo le società straniere ad andarsene. L’inglesissima Dyson, fondata dall’inventore James Dyson, grande sostenitore di Brexit, trasferirà la sede a Singapore perché l’Asia è diventata il maggiore e più promettente mercato.

P&O, società britannica che da quasi due secoli gestisce i traghetti che attraversano la Manica, ha annunciato ieri che in futuro batteranno bandiera cipriota. La decisione di ammainare l’Union Jack è stata presa «per evitare ispezioni e ritardi» dovuti a Brexit. Resteranno invariati i nomi patriottici dei traghetti, come “Spirit of Britain”.

Le società farmaceutiche
Molte società del settore medico-farmaceutico stanno ripensando le loro strategie. AstraZeneca ha sospeso ogni decisione sugli investimenti in Gran Bretagna fino alla data di Brexit, mentre GlaxoSmithKline ha avvertito che «no deal sarebbe un esito davvero negativo». Le società farmaceutiche Wasdell e Central Pharma hanno fatto grossi investimenti in Irlanda in preparazone a un trasferimento, mentre Steris, che vende 2,5 miliardi di euro di strumenti chirurgici ogni anno, ha già spostato la sede.

Il comparto automobilistico
Il settore automobilistico è uno dei più colpiti. Toyota, Honda e Bmw hanno avvertito che dovranno sospendere la produzione in aprile e ripensare la loro strategia. Il Ceo di Bentley, Adrian Hallmark, ha definito Brexit un “killer” che minaccia l’esistenza del gruppo, costretto ad aumentare le scorte di parti importate dalla Ue. La Cbi, la Confindustria britannica, ha un rimedio per fermare l’esodo di imprese dal Regno Unito. «Un no deal in marzo deve essere escluso immediatamente e in modo categorico -, afferma Carolyn Fairbairn, direttore generale della Cbi-. Questo è l’unico modo per impedire danni irreversibili e ridare fiducia alle imprese».

Possibile estensione dell’Articolo 50
La palla, però, è nelle mani di Westminster, dove il dibattito resta serrato. Ieri c’è stata una parziale schiarita, con il Labour disposto a favorire un emendamento nel quale si dà ai Comuni la possibilità di votare un’estensione dell’Articolo 50 sul distacco di Londra dall’Unione in caso di mancato accordo sul pacchetto negoziato con Bruxelles entro il 26 febbraio. La notizia è stata presa bene dai mercati e la sterlina si è portata ai massimi da novembre nei confronti del dollaro, oltre quota 1,30.

La richiesta di rinvio dell’Articolo 50 non è comunque un passaggio semplice e la stessa premier Theresa May sembra ancora contraria. Il capo negoziatore della Ue, Michel Barnier, inoltre, davanti al Comitato sociale ed economico del Parlamento europeo non ha lasciato molti margini di manovra a Londra: «Ci sono due possibilità per lasciare l’Unione: la prima è un’uscita ordinata basata sull’accordo costruito passo dopo passo con il Regno Unito dopo 18 mesi di megoziati; la seconda è un’uscita disordinata, che è anche al momento uno scenario di default».

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