«La questione è semplice: se vivi in Grecia e sei laureato in ingegneria robotica, cosa fai? Te ne vai. Qui non c’è futuro». Kiriakos Mantouvalos, 38 anni e una laurea in letteratura italiana, si divide fra l’insegnamento («La mia passione») e il lavoro in un’agenzia turistica. Ha preferito restare nel suo paese nel vivo della crisi che ha logorato Atene, fra l’incubo del default e il referendum del 2015. Sa di essere un’anomalia, anche statistica, rispetto al’emorragia che inquieta la politica nazionale: il brain drain, la fuga di giovani che sta svuotando la Grecia della sua futura classe dirigente.
I numeri sul fenomeno variano, ma si viaggia sempre nell’ordine delle centinaia di migliaia. Elstat, l’istituto statistico nazionale, ha stimato nel 2017 un totale di 500mila cittadini espatriati nell’arco di cinque anni precedenti, in larga parte sotto ai 40 anni. La quantità fa un certo effetto, su un paese che sfiora gli 11 milioni di abitanti. Ma a preoccupare è soprattutto la qualità. Ad andarsene sono i cosiddetti «talenti», i giovani che hanno studiato, parlano bene le lingue e sono cresciuti con una sensibilità già europea.
EUROPEE 2019 - IL DOSSIER DE IL SOLE 24 ORE
Secondo alcune stime, il totale di laureati ad aver detto addio (o un arrivederci prolungato) alla Grecia si aggira tra le 180mila e le 200mila unità. Una massa di ingegneri, dottori, scienziati, specialisti It esportati in pianta stabile nel resto d’Europa (dove si riversa il 71% il totale, secondo uno studio dell’organizzazione di imprese Endeavor Greece), Stati Uniti, Asia e Australia. Basta accennare il problema a un giovane per sentirsi riepigolare casi di migrazione vissuti in prima persona. Ingegneri sottopagati in casa e assunti in California con retribuzioni da top manager. Medici partiti per i Paesi Bassi con una borsa di studio per la specializzazione e rimasti a vivere ad Amsterdam. Laureandi in economia che danno per scontato di trasferirsi altrove, inclusa l’Italia: «Un mio allievo sogna di andare a fare un master a Milano» racconta Kiriakos.
Il peggio deve ancora venire
In teoria il peggio dovrebbe essere passato, dopo che il paese si è lasciato alle spalle otto anni di piani di salvataggio
e rispettato i vincoli fissati da Bruxelles. La realtà dei fatti, quella che si respira per le strade di Atene, è meno rasserenante
di quanto traspaia dalle congratulazioni di rito sui «conti a posto» e il nuovo feeling tra il premier Alexis Tsipras e la
cancelliera tedesca Angela Merkel. Le ultime stime della Commissione sul tasso di crescita annuo proiettano Atene verso un
lusinghiero +2,2% del Pil nel 2019 (dopo il +2% stimato nel 2018), mentre l’Italia è inchiodata al +0,2%. Ma le statistiche
macro sfiorano appena il quotidiano di una generazione che arriva a guadagnare 1000 euro lordi solo accavallando uno o più
impieghi. In Grecia la quota di popolazione «a rischio povertà» era pari nel 2017 al 34,8% del totale, contro una media Ue
del 22,5% Il fattore che fa scattare la fuga lontano dal paese è sempre rimasto lo stesso, la carenza di occupazione. Qualificata
o no. «Il lavoro non c’è, e quando c'è con stipendi minimi», dice Kiriakos. «Si parla di 500-700 euro al mese, quando va bene.
Per “sopravvivere” bisogna sommare almeno due impieghi».
Il suo sfogo non è eccessivo. Il tasso di disoccupazione è calato rispetto ai picchi del 27,5% del 2013, ma resta elevato (18,6%) in valori assoluti e al 38,5% tra gli under 25. Una laurea in curriculum incentiva alla partenza, anche a costo di sobbarcarsi gavette sconnesse dalle proprio qualifiche. Ci sono dentisti abilitati in patria che lavorano in magazzini negli Stati Uniti, in attesa della conversione del proprio titolo di studi. E poi la Germania, la meta più naturale, in parte per la reputazione di locomotiva d’Europa, in parte «perché ora la Merkel dice di aver bisogno di manodopera qualificata». Nel loro complesso, però, i trasferimenti sono studiati e fanno decollare carriere che che sarebbero ridimensionate (o inesistenti) in patria. Grigoris Argeros, un professore di sociologia alla Eastern Michigan University (Stati Uniti), ha analizzato in prima persona il fenomeno del Great Greek Brain Drain, «la grande fuga di cervelli» che incombe su Atene come i creditori incombevano sul suo bilancio negli anni bui del commissariamento. Secondo le rilevazioni di Argeros, il 40% dei migranti greci negli Stati Uniti lavora in posizioni manageriali, tecniche, nelle vendite o in funzioni amministrative.
Sempre il 40% è in possesso di un titolo di laurea o di dottorato, magari con qualche master di specializzazione. Fra i titoli più rappresentati ci sono ingegneria (11%), economia (5%), medicina (4%), biologia e (3%). Senza dimenticare il mondo dell'università e della formazione in sé. In Grecia, culla della classicità, la vita è ostica anche – e soprattutto – per i giovani che si specializzano nelle scienze umane. Il governo ha fatto calare la scure sui fondi pubblici all'istruzione, uno fra i segmenti sacrificati alle esigenze della contabilità nazionale. Ne ha fatto le spese anche l'insegnamento del latino, tagliato dai curricula con il pretesto di insistere sulle discipline tecnico-scientifico.
Una mossa più di vetrina che di sostanza, viste le (rare) opportunità disponibili nell'industria a livello nazionale. Christos Zafeiropoulos, 25 anni, si è dovuto trasferire a Magonza (Germania) per un dottorato in storia bizantina. In Germania ha una borsa di studio e un lavoro come ricercatore associato. In Grecia avrebbe dovuto finanziarsi da solo, visto che i fondi scarseggiano e diversi dottorandi devono alternare lo studio a lavori extra, con il risultato di non potersi concentrare a fondo né sul primo né sui secondi. Anche perché le aziende tendono a sorvolare sui diritti sindacali, richiedendo straordinari che scavalcano gli orari ufficiali. «La Grecia non offre ai giovani la possibilità di trovare lavoro nell'ambito in cui si sono formati - spiega - Tornerei solo se ci fosse un mercato del lavoro normale e una prospettiva di crescita».
Le conseguenze sull’economia (e il disincanto)
Alcuni sottolineano che la perdita di capitale umano si ritorce sulla crescita del paese e, soprattutto, la diversificazione
di un'economia che è appesa per quasi il 20% del suo Pil alle entrate del turismo. Argeros è scettico sulla possibilità di
misurare l’impatto sull'economia nel suo complesso, ma «al tempo è stesso chiaro – dice al Sole 24 Ore – che la Grecia ha
perso una fetta di popolazione altamente qualificata. Un gruppo di persone simili avrebbe potuto essere impiegato in Grecia».
Il buco che si sta scavando potrebbe compromettere la possibilità di mantenere gli stessi standard di formazione.
La soluzione per favorire un controesodo, dice Argeros, è anche la più immediata: «Lavoro, lavoro, lavoro. Ma anche investimenti
in formazione in programmi che favoriscano un’occupazione stabile». L’appello al «lavoro, lavoro, lavoro» ricalca, testualmente,
uno degli annunci più inflazionati nella politica greca in vista di un 2019 di fuoco. A maggio ci sono le elezioni europee
e a novembre quelle legislative. L’urgenza di frenare l'esodo dei giovani è rivendicata in simultanea da maggioranza e opposizione,
accomunate anche dal rimpallo reciproco di accuse sullo stato dell'arte del paese. Il governo di Alexis Tsipras, nato sulle
barricate contro malapolitica greca e austerity europea, si è annacquato fino a reggersi grazie all'appoggio di fuoriusciti
della destra. Nel 2015 il suo partito, Syriza, sfondava fra i giovani greci e innervosiva l’establishment europeo. Quattro
anni dopo, Tsipras ha perso la spinta delle nuove generazioni in patria – senza trovare, però, un appoggio a Bruxelles che
vada oltre i complimenti di circostanza sul rispetto delle linee guida imposte al suo paese.
La principale forza di opposizione di centrodestra, Neo Demokratia, si affida alla linea liberal del Partito popolare europeo e spinge sul repertorio classico del «più mercato», dal taglio delle tasse a un’infatuazione
più recente per le startup e l’innovazione in generale. I leader del partito teorizzano come attrarre capitali di rischio
e creare un «ecosistema» di startup che faccia da complemento all’industria nazionale. Se non fosse che l’industria greca
è schiacciata ai minimi su segmenti ad alto valore aggiunto tecnologico: su circa 180 miliardi di valore aggiunto lordo generati
dall'economia greca nel 2017, la chimica incide per poco più di un miliardo, l’Ict per 950 milioni di euro, la produzione
di macchinari per 575 milioni. Gli investimenti in ricerca e sviluppo si fermano all’1% del Pil, anche al di sotto degli standard
record – in negativo – dell’Italia (1,36% del Pil). I giovani greci andranno alle urne per due volte nell'arco di meno di
sei mesi, ma non vedono un programma che risponda alla loro unica esigenza: la normalità. C'è chi teme un exploit delle forze
populiste, per quanto possa valere ancora il concetto dopo la parabola di Syriza, o un ritorno di fiamma verso i neonazisti
di Alba Dorata.
L’astio contro i migranti attechisce in Grecia, come altrove, ma i giovani cresciuti nell'integrazione europea guardano in direzioni diverse. Alcuni verso Diem 25, il partito «transeuropeo» fondato dall’ex ministro greco delle Finanze Yanis Varoufakis. Qualche anno fa, Varoufakis ha accompagnato Atene a un passo dallo strappo definitivo con Bruxelles. Ora torna con un programma che vuole essere, spiega, saldamente europeo senza adeguarsi all’establishment: smaltimento via cartolarizzazione del debito pubblico (quello greco è una zavorra pari all'178,6% del Pil), investimenti sull'ambiente, tassazione delle multinazionali. Forse le nuove generazioni gli daranno fiducia, anche se con un entusiasmo sbiadito rispetto a quello che ha travolto Syriza nel 2014. Magari è un'illusione, ma servono anche quelle.
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