Era la candidata eletta per «riportare unità» in un Partito conservatore sempre più frammentato. È riuscita a spaccare i Tories, il governo e l’Europa come (quasi) nessuno aveva saputo fare. Fino a una scelta diventata inevitabile: le dimissioni dopo l'ultimo incontro ufficiale con Donald Trump, annunciate con la voce rotta dalle lacrime.
PER SAPERNE DI PIÙ / Brexit, May annuncia le dimissioni. «Ho servito il Paese che amo»
La parabola di Theresa May, primo ministro del Regno Unito, è scandita dal processo che ha segnato diverse carriere a Westminster: la Brexit, il divorzio che è costato la testa al suo predecessore David Cameron e trasformato lei nella donna-simbolo dei tentennamenti dell’Isola nel suo addio agli odiati «burocrati di Bruxelles».
May, reduce da tre sconfitte alla Camera dei Comuni, si è trovata schiacciata fra il pressing interno di una fronda di deputati e il gelo dei leader europei, decisi ad a respingere qualsiasi ritocco all'accordo di divorzio concordato a novembre del 2018. I primi hanno spinto per le sue dimissioni, i secondi si sono rifiutati di concedere modifiche sostanziali al «backstop» (una garanzia per evitare confini rigidi fra Irlanda e Irlanda del Nord) che le avrebbero permesso il via libera dei Brexiter più riottosi. Lei era sempre rimata dov'era, impermeabile alle batoste collezionate da quando ha deciso di sciogliere il più grosso groviglio diplomatico della storia recente dell'Isola. “Era”, appunto, perché la sua stagione si è chiusa all'indomani della partecipazione di Londra alle Europee. Una beffa in più per un divorzio dalla Ue nato e gestito male.
Dall’Oxfordshire a Downing street
Nata nel 1956 a Eastbourne, nel Sussex, la futura premier è figlia unica di un pastore anglo-cattolico (Hubert Brasier: lei
cambierà cognome dopo il matrimonio con il manager Philip May) e una militante del partito conservatore, Zaidee Mary. Cresce
nell’Oxfordshire, la contea del sud-est inglese che deve il suo nome al capoluogo e al futuro ateneo di May: Oxford, la culla
delle élite britanniche dove May si laurea in geografia frequentando il St Hugh's College. Inizia a lavorare prima nella
Bank of England, la banca centrale del Regno Unito, poi nella Association for Payment Clearing Services, dove resta con vari
incarichi fino al 1997. Ma nel frattempo la sua vita si è già sbilanciata sulla vocazione definitiva, la politica. Debutta
nel 1986 come consigliere a Merton, borgo nel sud-ovest di Londra, per arrivare 11 anni dopo agli scranni del parlamento,
eletta come rappresentante della cittadina del Berkshire Maidenhead.
È qui che scatta la sua ascesa, quella che la conduce fino ai vertici della politica nazionale. Nel 2002 diventa la prima donna a ricoprire la carica di presidente nel Partito conservatore, cercando di modernizzare immagine e linea del partito. Dopo vari ruoli «ombra» negli anni dell’opposizione a Tony Blair e Gordon Brow, dalla scuola ai trasporti, May fa il salto cruciale con il governo di David Cameron: segretario di Stato per gli affari interni, la carica che nella politica britannica equivale al nostro ministro dell’interno. Resta nel ruolo fino al 2016, prima di succedere allo stesso Cameron alla guida del governo dopo il referendum per la Brexit nel 2016. La seconda donna dopo Margaret Thatcher, parallelo ostico ma lusinghiero per il suo esordio alla guida del Paese. Viene confermata dal voto delle elezioni nazionali del 2017, anche se con una percentuale che rivela tutta la fragilità della sua maggioranza: 42,3%, contro il 40% dei laburisti capitanati dalla sua nemesi, Jeremy Corbyn. Troppo poco per ripristinare «l’unità» fra le file del partito. Anche meno per traghettare Londra verso la Brexit, l’odissea diplomatica che le ha lasciato in eredità Cameron.
May, la Brexit e l’ambiguità del divorzio dalla Ue
Già, la Brexit. Nel vivo della campagna referendaria per il voto del 2016, May si dichiara ufficialmente a favore della permanenza
dell’Isola nell’Ue. Nei fatti, conserva una ambivalenza che le varrà rinfacciata come un calcolo politico: per il remain certo, ma non quanto basta a evitare stoccate all’Europa che incrementano i suoi consensi fra alcune fronde dei conservatori.
Quando la Brexit inizia a diventare realtà dopo la consultazione del 23 giugno, May assicura che lavorerà per un’uscita «mainstream»,
ordinata, dell’Isola dall’Ue. Solo gli anni successivi dimostreranno che aveva torto, sottovalutando gli scogli dell’accordo
o sopravvalutando la coesione del suo governo. Il suo esecutivo ha contato, nell’arco di meno di due anni, una sequela convulsa
di defezioni e cambi di guardia. Solo nella seconda metà del 2018 se ne sono andati due ministri della Brexit di fila (David
Davis a luglio, Dominic Raab in novembre) e figure carismatiche dell’intera campagna per il divorzio (come il ministro degli
Esteri Boris Johnson, euroscettico di lunghissimo corso), complicando ancor più le trattative fra May e i leader europei.
Le cronache recenti sono note, sia pure nella confusione e nei cavilli che ormai dominano la procedura di separazione di Londra dall’Unione. Nel novembre May ha strappato un accordo di ritiro ai partner europei (Brexit withdrawal agreement), preparandosi allo scoglio della ratifica della Camera dei Comuni. A meno di due settimane, il via libera non è arrivato: prima la bocciatura dell’accordo il 15 gennaio 2019, con uno scarto di 230 voti; poi il secondo stop del 12 marzo, con un bilancio in negativo di 149 voti, a vanificare le trattative dell’ultimo minuto condotte da May a Strasburgo nella notte dell’11 marzo. May sa essere autoironica, anche goffamente, come quando si è presentata sul palco della convention dei Conservatori accennando un passo di danza sulle note della hit degli Abba Dancing queen. Ma dopo il voto del 12 marzo lo humour ha ceduto il passo agli ultimatum, per quanto possano valere: va bene riaprire la partita della Brexit, ma i parlamentari «indichino la strada» che vogliono percorrere.
Dal canto suo la premier ha resistito oltre ogni attesa, fino all'addio del 24 maggio. A proposito di ironia, i negoziati fra lei e Juncker si sono svolti nell'edificio del Parlamento europeo dedicato a Winston Churchill, il leggendario primo ministro britannico che invocava l'equivalente degli Stati Uniti d'Europa nel dopo guerra. In queste ore nessuno scomoderebbe un paragone così ingombrante, ma c'è almeno un'affinità fra May e l'eroe politico del partito conservatore: l'appello a «non arrendersi mai», come riecheggiava nella storico discorso sul «never surrender» alla Camera dei comuni nel 1940. Solo che Churchill invitava il suo Paese a resistere nella guerra mondiale che stava per logorare l'Europa, e ha vinto. May ha cercato di «non arrendersi» di fronte al suo Paese, forse anche di fronte a se stessa. E ha perso.
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