Il primo ministro britannico Theresa May ha aperto al rinvio della Brexit, posticipando l’inizio del processo oltre alla scadenza del 29 marzo 2019. La premier ha ufficializzato il proposito nel suo discorso alla Camera dei Comuni, annunciando un’agenda parlamentare scandita da tre step: un voto «entro il 12 marzo», come già previsto, sull’accordo siglato con i partner europei; un voto sull’ipotesi di una rottura («no-deal») con la Ue il 13 marzo; infine, il 14 marzo, un voto sull’estensione dell’articolo 50, cioè un «breve, limitato rinvio» della separazione dalla Ue oltre la scadenza ufficiale di fine marzo.
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Vediamo cosa potrebbe succedere nelle tre date.
Il 12 marzo: ennesimo test sul patto di Theresa May
Il voto che si terrà «entro 12 marzo» è, forse, quello più prevedibile. Theresa May chiederà ai parlamentari di esprimersi
sui contenuti dell’accordo siglato con i partner europei lo scorso 25 novembre e, da allora, rinegoziato a più riprese dopo vari flop alla Camera dei Comuni. May è tornata a Bruxelles per ottenere qualche apertura sul tema del backstop, la «polizza» che dovrebbe garantire che il
confine tra Irlanda e Irlanda del Nord resti invisibile. La premier sostiene di aver registrato «passi avanti» nelle trattative,
ma i partner europei hanno chiarito in più occasioni che non sono disposti a modifiche sostanziali del testo.
Una robusta fronda del partito conservatore, gli unionisti nordirlandesi e ovviamente i laburisti hanno sempre remato contro
l’intesa raggiunta da May con Bruxelles, contribuendo alla - catastrofica - sconfitta del voto di gennaio (432 no contro 202
sì, poi replicata in minore da una seconda bocciatura a febbraio: 303 voti contro e 258 a favore). May è alla testa di un
governo fragile e di una maggioranza frammentata. Nel caso di un - improbabile - sì del Parlamento si arriverebbe alla Brexit
il 29 marzo, rispettando le tempistiche fissate in origine. Nel caso di un no, più verosimile, si slitterebbe al voto del
giorno successivo.
Il 13 marzo: deal o no-deal, questo è il dilemma
Il 13 marzo, May vuole vagliare il parere del Parlamento sull’ormai celebre ipotesi no-deal: una rottura dalla Ue senza accordi
diplomatici, equivalente a una cesura totale dei vari legami giuridici, commerciali e politici fra i due blocchi. May ha ribadito
che una Brexit «hard» sarebbe la soluzione più sfavorevole in assoluto e, almeno su questo, il Parlamento sembra dalla sua.
Anche i Breexiter più accaniti hanno finito per schierarsi contro il «salto nel buio» di un divorzio sprovvisto di tutele.
Tre ministri del suo governo hanno lanciato un appello per un rinvio dell’intero processo di Brexit, sempre per evitare un
divorzio no-deal. May può formalizzare la contrarietà della Camera dei comuni al no-deal con il voto diretto dei parlamentari:
«Quindi il Regno Unito - ha detto - lascerà la Ue senza un accordo solo se c’è un esplicito consenso in questa Camera per
quel risultato». Viste le premesse e i numeri attuali, tutto lascia intendere che i deputati si esprimano contro l’uscita
«senza paracadute» dalla Ue. In quel caso scatterebbe il terzo voto, quello decisivo.
Il 14 marzo: sì o no all’estensione dell’articolo 50, con l’incognita europea
Senza un accordo, ma volendo evitare al tempo stesso il no-deal, resta un’unica soluzione: il rinvio dell’inizio della Brexit,
fissato al 29 marzo 2019. May ne ha parlato come una ultima spiaggia, anche se l’ipotesi ha preso quota a Bruxelles e nello
stesso parlamento britannico. «Se la Camera respinge l’accordo e respinge l’uscita no-deal - ha detto May - il governo presenterà
il 14 marzo una mozione per chiedere al parlamento se vuole una estensione breve e limitata dell’articolo 50 (la procedura
di uscita dalla Ue, ndr)». Se la Camera dei Comuni darà il suo ok, l’esecutivo cercherà di concordare un rinvio con l’Europa,
aggiornando la data con una scadenza compatibile. May ha precisato comunque di «non voler vedere» un ritardo del divorzio,
continuando a concentrarsi sul rispetto della scadenza originaria del 29 marzo. Anche perché il rinvio, per quanto «breve»
possa essere, rischia di portare le trattative oltre la data del voto alle Europee. «Un’estensione oltre giugno significa
che il Regno Unito dovrebbe partecipare alle europee - fa notare May - Che messaggio daremmo ai 17 milioni di cittadini che
hanno votato per lasciare la Ue?». Il rinvio potrebbe attenuare i rischi di uno strappo diplomatico, anche se non si può
escludere del tutto l’incognita del no-deal: «Un’estensione non può escludere l’ipotesi del no-deal - ha detto - L’unica via
sarebbe di revocare l’articolo 50, cosa che non farà, o accordare un patto».
Corbyn: May fa solo promesse, spieghi qual è il suo piano B
Il leader dei laburisti, Jeremy Corbyn, si è mostrato scettico sulla «agenda» proposta dalla premier. Corbyn fa notare che
«May ha promesso un voto, ma lo aveva promesso anche a dicembre, gennaio, febbraio, marzo. Però c’è stato solo quello di gennaio».
Corbyn, suscitando contestazioni nella Camera, ha dichiarato che «i laburisti hanno un piano credibile» in alternativa a quello
difeso finora da May. Corbyn ha risposto così all’accusa, lanciata dalla premier, di essere «tornato sui suoi passi», sostenendo
l’opzione di un secondo voto referendario sulla Brexit. Yvette Cooper, la deputata laburista che ha proposto un emendamento
per bloccare il no-deal, ha aggiunto che il voto del Parlamento è già stato «ignorato» in passato dalla premier. Lo scenario
per il divorzio dalla Ue si fa ancora più teso, mano a mano che si avvicina la scadenza - teorica - del 29 marzo. I deputati
conservatori temono che il rinvio equivarebbe a una retromarcia definitiva sulla Brexit.
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