Lo scorrere vitale di un’eterna sopravvivenza. È questa l’immagine che dà Cúcuta; a poche centinaia di metri dalle dogane e dai controlli delle milizie colombiane e venezuelane, la città si presenta in tutta la sua potenza espressiva. File di migranti con borse, pacchi, valigie di cartone piene di chissà che cosa. Donne sole con bambini in braccio, uomini di ogni età. Lungo le strade si vende di tutto: frutta, pane, dolciumi, empanadas, chincaglierie. Poi i “servizi”: cambiavalute, società di trasporto, riparatori di cellulari, peluquerias, barbieri che tagliano e pettinano sui marciapiedi, e ragazze da marciapiede.
Molti banchetti di medicinali, con pastiglie sfuse, qui al Punte Simon Bolivar, chiuso ma aggirabile attraverso pericolosi sentieri nella boscaglia. Vladimir e Vanessa, 26 anni lui, 25 lei, due facce pulite e sorridenti, ne gestiscono uno, richiamano l’attenzione dei venezuelani, ne elencano i benefici, quasi fossero beni voluttuari, sapendo che di là mancano medicine di base, in alcuni casi salvavita.
La chiusura delle frontiere commerciali e il blocco degli scambi bilaterali tra Colombia e Venezuela hanno generato penuria di tutto, aggravata dalla situazione politica interna di Caracas, la cui economia vive una recessione drammatica. Appesantita dalle sanzioni petrolifere imposte da Donald Trump, che preme per rovesciare il regime di Nicolas Maduro, in contrasto con la Russia (anche i colloqui a Roma tra l’inviato speciale della Casa Bianca, Elliot Abrams, e il vice ministro degli Esteri russo, Serghej Ryabkov, hanno confermato le divisioni tra le due potenze).
Il valore delle transazioni economiche tra Bogotà e Caracas era pari a 7 miliardi di dollari, oggi è sceso quasi a zero. I due Paesi da sempre sono simbiotici, non solo per affinità culturali ma per complementarietà di produzioni.
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Lungo la strada che dalla periferia di Cúcuta conduce ai blocchi dei militari, il primo centro di accoglienza è “Amigos del proximo”, un ostello gestito da una chiesa evangelica. Poco dopo quello di Monsignor Ochoa che, in località La Parada, ha saputo allestire una mensa cattolica che offre centinaia di pasti al giorno.
David Caña è il parroco che ci conduce nel tendone in cui, con dignità e pazienza, centinaia di persone attendono di essere chiamate, a gruppi di 20 o 30, al transito con i vassoi davanti ai volontari che servono il cibo. Oggi riso, uova, purè di piselli e tonno. Questo è il pranzo. «Stamattina presto, a colazione “un cafesito y un pancito”, un caffè e un panino», ci dice Andrés Betancur, 62 anni, venezuelano di Estado Vargas, professore di matematica in pensione. Modi educati e un bel sorriso, oscurato da un paio di denti mancanti.
David Caña, il parroco, è sussiegoso e ha un’aneddotica sterminata sul disagio dei venezuelani colpiti da una crisi politica, economica e sociale che li spinge a varcare il confine: «Pensi che qualche mese fa, mentre approntavamo le cucine per aumentare l’offerta di pasti caldi, alcuni venezuelani, arrivati in ritardo rispetto all’ora di pranzo, ci chiedevano le padelle sporche dei pasti già serviti. Pensavamo si offrissero come lavapiatti, invece volevano leccarle».
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Henri, 57 anni, insegnava musica in Venezuela, «un Paese meraviglioso, dove tutti, proprio tutti sanno suonare almeno uno strumento, mi dica lei se ne conosce altri così, ma ho dovuto andarmene, disgustato dai poteri che ci affamano solo per mettere le mani sul nostro petrolio. Non sto né con il presidente Nicolas Maduro né con Juan Guaidò, autoproclamato presidente, vorrei lavorare qui in Colombia fino al ripristino di condizioni di vita accettabili. Qui abbiamo cibo due volte al giorno, colazione e pranzo, ma dormiamo all’aperto».
In questa città di confine afosa e dimenticata, assurta agli onori delle cronache solo negli ultimi mesi, con l’inasprita conflittualità dei governi di Bogotà e di Caracas, oltre che i micro-commerci derivanti dalla migrazione ci sono i quartier generali delle forze internazionali. Quelle dei colombiani e degli americani, ma anche dei russi e dei cinesi, secondo le nostre fonti, ma evidentemente “in incognito”.
Al Puente de la Unidad, dieci minuti di auto dal Puente Simon Bolivar, ci riceve Felipe Muñoz, direttore di frontiera di Cúcuta della Presidenza della Repubblica. È un luogo surreale, un’infrastruttura di grandi dimensioni, perfettamente agibile, abilitata al transito di centinaia di mezzi al giorno, costata 50 milioni di dollari, un ponte simbolo, approvato anni fa da Hugo Chavez, che avrebbe dovuto essere inaugurato il 23 febbraio scorso, meno di un mese fa. Ma che Nicolas Maduro ha deciso di tenere chiuso. «Il mio compito - spiega Muñoz - è quello di aiutare la cooperazione internazionale, sono stato chiamato dal presidente Duque per questo». Il centro afferisce al Ungrd, Unità nazionale per la gestione del rischio disastri, e ospita gli alleati americani. Uno degli uffici, ora deserto, è quello dei collaboratori di Juan Guaidò e nella sala attigua è in corso una riunione tra colombiani e statunitensi.
È il senso di desolazione a prevalere. Percorrendo il corridoio su cui si affacciano gli uffici si arriva al magazzino dove sono ammassati alcuni pancali di cibo destinati al Venezuela. Sono gli aiuti umanitari che Maduro ha respinto in quanto a suo parere “cavallo di Troia” «per far arrivare armi e sovvenzioni all’opposizione». Una guerra guerreggiata, tra Venezuela e Colombia, combattuta a suon di minacce e rappresaglie.
Pensare che proprio qui, poco lontano dal centro di Cúcuta, nel sobborgo Villa del Rosario, nacque la Gran Colombia, il cui presidente Simon Bolivar, nel 1821, stilò i principi costituzionali di un’unica regione, estesa e coesa, composta da Venezuela, Colombia ed Ecuador.
Non ne resta nulla oggi.
July, una bella donna venezuelana di 32 anni con in braccio un bimbo di 6 mesi, lavorava in un laboratorio di analisi a Maracaibo e non avrebbe mai immaginato di trovarsi in un centro di accoglienza. Le sue sono le parole più belle: «Siamo sempre impreparati alla vita».
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