Nella notte del 3 aprile, la Camera dei Comuni britannica ha dato il via libera a una proposta di legge per evitare il rischio
di una Brexit no-deal. Il testo, firmato dalla laburista Yvette Cooper e dal conservatore Oliver Letwin, è stato approvato
con uno solo voto di scarto (313 sì e 312 no), dopo un rush negoziale che ha portato lo speaker John Bercow a usare il suo
voto decisivo per bocciare un ulteriore emendamento. Il provvedimento obbligherebbe la premier Theresa May a chiedere un rinvio più lungo del divorzio dalla Ue, già slittata dal 29 marzo al 12 aprile, ma deve incassare prima il
consenso definitivo della Camera dei Lords (favorevole in prima lettura) e poi quello del Consiglio europeo. Il 4 aprile è
arrivata la frenata da parte della Camera dei Lord, malgrado un ampio sostegno maggioritario in prima e seconda lettura.
Il tentativo di alcuni lord laburisti pro Remain d'imporre una corsia privilegiata per chiudere in giornata si è scontrata
con l'ostruzionismo di diversi colleghi Tory - in particolare di un drappello di storici ex ministri thatcheriani guidati
da Nigel Lawson -, ma anche dalle obiezioni costituzionali oltre che procedurali di membri indipendenti della Camera come
lord David Pannick, uno dei più autorevoli giuristi del Regno Unito. Di qui la decisione finale di prendere tempo fino a lunedì per ulteriori approfondimenti prima della terza lettura.
In tempo comunque, assicura l'ufficio del capogruppo del Labour, per far tornare ai Comuni l'eventuale versione emendata entro
un'ora utile per l'entrata in vigore lunedì stesso.
Il governo si era opposto, subendo una nuova sconfitta dopo le tre bocciature all’accordo di May. Il motivo? La stessa premier aveva già annunciato che avrebbe chiesto una proroga della Brexit oltre la scadenza del 12 aprile, con l’obiettivo di guadagnare tempo e negoziare un nuovo accordo con i leader dell’opposizione Jeremy Corbin. La legge voluta da Cooper ha l’effetto di blindare May ai suoi stessi impegni, ad esempio obbligandola a chiedere il via libera del Parlamento per decidere la lunghezza esatta del periodo di estensione. May aveva parlato di una «proroga breve» o comunque entro il 22 maggio, per evitare una sovrapposizione con le elezioni europee del 2019 e il rischio di una (beffarda) partecipazione di Londra al voto per la nuova legislatura dell’Eurocamera. A quello che si apprende, i deputati potrebbero essere favorevoli anche a un rinvio più lungo. In compenso il governo è riuscito a bloccare un’ulteriore tranche di voti indicativi prevista per lunedì prossimo. «Il Regno Unito deve presentarsi a Bruxelles con un piano» ha detto un portavoce del premier.
I negoziati fra May e Corbyn. Il laburista: utili, ma non conclusivi
Nel frattempo vanno avanti i negoziati fra May e il suo rivale storico, il leader dei laburisti Jeremy Corbyn. La premier
sta cercando di strappare un accordo condiviso all’opposizione, per ripresentarsi a Bruxelles il 10 aprile con un nuovo testo
e ottenere successivamente la ratifica dell’accordo alla Camera dei Comuni. Il 4 aprile si è tenuto un incontro di 4 ore e
mezza. I colloqui sono stati definiti «produttivi» da una nota di Downing Street, ma non è ancora arrivato nessun annuncio
di accordo raggiunto fra i team negoziali di Theresa May e di Jeremy Corbyn. Nella nota si dichiara che vi sono state discussioni
«tecniche produttive» e che le parti contano di rivedersi il 5 aprile per «fare progressi» prima del prossimo vertice Ue,
verso un'intesa che garantisca «l’attuazione del referendum» del 2016.
Corbyn aveva sempre spinto per le dimissioni della premier, ma ha accolto di buon grado l’invito al dialogo. Il 3 aprile si è svolta la prima sessione di negoziati, giudicata «utile, ma non conclusiva» dallo stesso Corbyn. I membri del suo partito stanno facendo pressing perché qualsiasi compromesso includa la clausola di un referendum confermativo, ovvero di un giudizio popolare sull’accordo di divorzio tra Londra e la Ue siglato da May con i leader europei.
A essere meno entusiasta del dialogo con Corbyn è la stessa maggioranza di Theresa May, a partire dalle fronde più oltranziste (e di destra) che animano il partito conservatore. Solo il 3 aprile May ha dovuto incassare le dimissioni di due sottosegretari: Chris Heaton-Harris, responsabile per i piani di preparazione al no-deal, e il sottosegretario per il Galles Nigel Adams. Raggiunto dal Sole 24 Ore, un portavoce di Adams ha fatto sapere che al momento il deputato «non rilascia dichiarazioni». In ogni caso, anche l’eventuale accordo May-Corbyn dovrebbe passare per il vaglio finale di Bruxelles. Il Consiglio europeo ha fissato per il 10 aprile un summit di emergenza sulla Brexit, in teoria con il presupposto di ricevere per quella data anche la visita di May e il suo nuovo testo.
I dubbi dell’Europa e i rischi per il paese
Il presidente del Consiglio europeo ha invitato i colleghi alla calma, scrivendo via Twitter che bisognerà essere «pazienti»
con i nuovi cambi di scena di Bruxelles. I vertici Ue, però, stanno considerando sempre più realistico lo scenario di una
Brexit no-deal. Lo ha confermato anche il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, sostenendo che il rischio di un divorzio brusco è «sempre più probabile». Ma i timori sono costanti anche a Londra, dove
il governatore della Bank of England Mark Carney ha messo in guardia dai rischi «allarmantemente alti» del no-deal. Secondo
uno studio della società di consulenza Standards&Poors, il Regno Unito ha già perso una media di 6,6 miliardi di sterlina
per ogni trimestre successivo al voto del referendum del 2016. Non è facile prevedere fino in fondo cosa potrebbe succedere
dopo il divorzio finale, con o senza il «deal» voluto da May.
© Riproduzione riservata