Su Brexit è il più rigido, insieme agli spagnoli e ai belgi. Il presidente francese Emmanuel Macron si è contraddistinto,
in questa fase, per la severità con cui risponde alle continue, e spesso confuse, richieste di rinvio da parte britannica.
Al punto da mostrare di non temere una Brexit dura. I media d’oltremanica – il Financial Times in testa – lo hanno addirittura paragonato a Charles De Gaulle, che nel 1963 pose il veto all'ingresso del Regno Unito nella
Cee, rievocando la storica – ma in realtà relativa, soprattutto nell'ultimo secolo – rivalità tra Parigi e Londra. Perché
tutta questa intransigenza?
Calais collo di bottiglia
La risposta non è semplice. La Francia, insieme all’Irlanda, rischia di essere una delle economie più colpite dall'uscita
del Regno Unito dall’Unione europea. I rapporti sono molto stretti, Parigi gode con il partner di un surplus commerciale che
non può vantare con molti altri paesi (l’economia è cronicamente in deficit). La transizione da un regime di libera circolazione
a uno “doganale” rischia inoltre – soprattutto in caso di Brexit senza accordo – di bloccare temporaneamente l’intero nord
del Paese: Calais, e pochi altri porti sulla Manica, potrebbero diventare uno strettissimo collo di bottiglia. Malgrado tutti
i preparativi e tutte le precauzioni che il governo ha preso da tempo alla luce di simulazioni catastrofiche.
Brexit «troppo» a ridosso del voto europeo
Un primo motivo dell’intransigenza è proprio qui, nel caos, probabilmente inevitabile in ogni caso, della transizione. Macron
ha tutto l’interesse di evitare che accada a ridosso delle elezioni europee, previste il 26 maggio. Non è nei suoi interessi
– e forse non lo è nell’interesse di una sana formazione del consenso popolare, libera da elementi emotivi transitori – far
votare i francesi mentre la situazione del traffico diventa temporaneamente insostenibile in una regione meno fortunata di
altre e molto vicina alla destra del Rassemblement (ex Front) national. Come dimenticare che la protesta dei Gilets gialli
è scoppiata attorno al tema dell’auto: caro benzina, costi delle revisioni, nuovi limiti di velocità?...
Il consenso di Macron
Ecco perché Macron ha insistito molto, il 22 marzo, sulla data del 7 maggio per l'uscita con accordo, mentre il Consiglio
Ue ha optato per quella del 22 maggio, molto vicina al giorno delle elezioni (previste in Francia per il 26). Se il parlamento
di Londra avesse approvato l’intesa firmata con Michel Barnier, Macron avrebbe sicuramente avuto problemi di consenso, di
fronte agli inevitabili intoppi doganali dei primi giorni. Al momento, il suo partito gode nei sondaggi del 23% – piuttosto
stabile – delle intenzioni di voto (in forte calo dal 32% delle politiche), contro il 21-22% – più volatile – della destra
di Fn (in flessione dal 24,9% delle ultime europee ma in rialzo dal 13,2% delle politiche).
Un no anche al rinvio lungo
La questione elettorale, però, è anche più complessa. Macron ha anche respinto l’ipotesi del presidente del consiglio Ue,
Donal Tusk, di un’estensione flessibile di Brexit di un anno. Eppure questa soluzione avrebbe consentito al presidente francese
di affrontare le ricadute del nuovo regime dopo il voto europeo. Non si può però pensare che il presidente voglia usare le
difficoltà della Gran Bretagna – che emergeranno in realtà nel medio periodo – per la sua campagna elettorale, tutta europeista.
Qualcos’altro è in gioco.
La redistribuzione dei seggi
Un’estensione lunga imporrebbe alla Gran Bretagna di partecipare alle elezioni. I 73 seggi destinati a Londra non verrebbero
redistribuiti. In caso di Brexit, invece, la Francia otterrebbe cinque seggi in più (79 in totale) come la Spagna contro i
tre in più di Italia e Olanda, i due dell’Irlanda e l’uno in più di Polonia, Romania, Svezia, Austria, Danimarca, Finlandia,
Slovacchia, Croazia ed Estonia (gli altri, Germania compresa, resterebbero al livello del 2014). La redistribuzione è una
’leva’ importante per i voti francesi (e spagnoli)
Macron come ago della bilancia
Anche se il sistema elettorale è proporzionale – per le legislative in Francia è invece previsto l’uninominale a doppio turno
– il partito di Macron, La République en Marche (Lrem) punta ad avere una presenza importante nel parlamento europeo, forse più dei 24 deputati ottenuti da Fn nel 2014 con il 24%
dei voti; e anche un seggio in più può essere importante. In un momento in cui le forze tradizionali, socialisti e popolari,
sono previsti in flessione – anche se probabilmente non ci sarà la valanga populista che gli euroscettici si aspettano – il
ruolo di Lrem come ‘ago della bilancia' o meglio di 'alleato necessario’ potrebbe diventare decisivo, sia pure nel limitato
ambito delle competenze del Parlamento europeo.
Le ambizioni europee dei francesi
La Francia, nel mosaico delle istituzioni e degli incarichi europei, è molto ambiziosa. Da attribuire c’è la presidenza della
Commissione e quella della Bce e non è un mistero che Parigi punti soprattutto alla prima (col candidato ‘naturale' Michel
Barnier, il negoziatore di Brexit).
La Francia e l’export energetico
È dunque una strategia di breve periodo, quella di Macron. Parigi, in un orizzonte temporale più lungo, ha poco da temere
da Brexit. I rapporti con Londra sono solidi e, nei limiti (ristrettissimi) in cui è possibile adottare una logica mercantilista,
la Gran Bretagna ha più bisogno della Francia di quanto la Francia abbia bisogno della Gran Bretagna. Il Regno Unito – per
fare un solo esempio – ha bisogno delle importazioni di energia della Francia, soprattutto d’inverno. Al punto che i ritardi
nella transizione energetica dal nucleare e dai combustibili fossili – che pure hanno pesato sul consenso di Macron – sono
legati anche alla necessità di mantenere stabile l’offerta di elettricità da esportare oltre Manica.
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