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Dossier Auto elettrica, ecco il piano di Volkswagen per la leadership mondiale

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Dossier | N. 52 articoli L’Europa dopo il voto

Auto elettrica, ecco il piano di Volkswagen per la leadership mondiale

Nei giorni caldi del Dieselgate, psicodramma nazionale oltre che storia di truffa e disonestà tecnologica e intellettuale, lo “Spiegel” fu impietoso nei confronti dell’allora classe dirigente di Volkswagen responsabile dello scandalo: «Una Corea del Nord senza i campi di lavoro». Così scrisse il settimanale tedesco per sintetizzare l’assolutismo gerarchico imposto da Martin Winterkorn e Ferdinand Piëch, ancora nel 2015 Ceo e presidente del Consiglio di vigilanza, alla catena di comando del gruppo di Wolfsburg.

Lo scandalo non è ancora del tutto alle spalle ed è costato finora 27 miliardi di euro. Il suo fardello però è stato ben gestito e il gruppo è riuscito a finanziare le multe e i costi legati ai richiami soprattutto con il cash flow. Ciò ha permesso alla società di nutrire rinnovate ambizioni sul primato dell’auto del futuro - quella elettrica - e sulla competizione feroce che si giocherà soprattutto con i produttori asiatici.

EUROPEE 2019 - IL DOSSIER DE IL SOLE 24 ORE

Secondo una proiezione elaborata da Reuters le grandi case automobilistiche investiranno nei prossimi cinque-dieci anni 300 miliardi di dollari per avviare la produzione di massa dell’auto elettrica in Cina, Europa e Nord America. Di questo flusso, un terzo del quale è attribuibile alla sola Volkswagen, metà è destinato al mercato cinese.
Il Dieselgate alle spalle?

Entro il 2028, ha promesso di recente il nuovo Ceo Herbert Diess presentando il bilancio 2018 e i piani di sviluppo, il gruppo avrà sul mercato 70 modelli alimentati da batterie a ioni di litio. Venti in più rispetto al piano precedente per raggiungere due anni dopo un obiettivo ambizioso: l’auto elettrica dovrà generare il 40% del fatturato da vendite. Tale ambizione è alimentata da un grande programma di investimenti, 46 miliardi di euro per l’intero gruppo nei prossimi cinque anni, di cui 30 solo per il marchio Vw e le sue controllate: «La nuova squadra di dirigenti del gruppo è finalmente quella ottimale - dice il professor Ferdinand Dudenhöffer, docente di gestione aziendale ed economia dell’industria automobilistica dell’Università di Duisburg-Essen -. Hanno preso il ritmo giusto e sono consapevoli della sfida che li attende sulla mobilità elettrica. Nulla a che vedere con il management del passato, compromesso con il Dieselgate e ancora impregnato di una cultura ingegneristica legata al motore a combustione interna».

I FLUSSI DI INVESTIMENTO NELL’AUTO ELETTRICA PER PAESE DI ORGINE DELLE CASE PRODUTTRICI
Le grandi case automobilistiche prevedono di spendere almeno 300 miliardi di dollari sullo sviluppo e sugli acquisti relativi alle batterie e alle vetture elettriche nei prossimi 5-10 anni. Oltre il 45% dei budget di questi produttori è destinato alla Cina, secondo una proiezione elaborata da Reuters sulla base di dati già pubblicati dalle case. Dati in miliardi di dollari

Nota metodologica: Reuters ha analizzato i bilanci relativi agli investimenti e agli acquisti resi pubblici negli ultimi due anni da 29 case produttrici con sede prevalentemente negli Stati Uniti, in Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Germania e Francia. I dati non riflettono. I dati e i relativi flussi non riflettono investimenti e acquisti pianificati ma non ancora resi pubblici: la spesa effettiva delle case produttrici su ricerca e sviluppo, progettazione, macchinari e acquisti sarebbe molto più alta. L'analisi inoltre non tiene conto delle spese collegate da parte dei fornitori, delle società tecnologiche e di altre società in altri settori industriali, come l'energia, l'aerospaziale, l'elettronica e le tlc.

La spinta verso l'auto elettrica porta con sé anche la sfida della sostenibilità. La produzione dovrà essere il più possibile neutra dal punto di vista delle emissioni di Co2, con grande spazio alle energie rinnovabili e a meccanismi di compensazione. Volkswagen si è data l’obiettivo di arrivare ad essere “carbon neutral”, cioè di riuscire a riequilibrare le emissioni di anidride carbonica con una riduzione di peso analogo, entro il 2050. I 40mila fornitori del colosso tedesco dovranno fare lo stesso e sottoporsi a un periodico “Sustainability Rating”, pena l'esclusione dai contratti

““La nuova classe dirigente di Volkswagen ha capito come gestire la transizione verso l’auto elettrica””

Ferdinand Dudenhöffer, professore di economia dell’industria automobilistica 

Volkswagen però non è una casa automobilistica come le altre. È un crocevia societario di interessi economici e politici forse unico in Europa. In questo è il corrispettivo aziendale dell’economia sociale di mercato: il modello renano che corre sulle quattro ruote la gara della globalizzazione senza voler rinunciare ad alcune prerogative tradizionali, come la coesione tra datore di lavoro, dipendenti e un sindacato che per legge è chiamato a cogestire.

Molto a Wolfsburg si gioca nelle sale del Consiglio di Vigilanza, nell’elegante torre in mattoni rossi degli anni 50 al centro del complesso automobilistico più grande del mondo, voluto da Hitler, assieme alla città, per costruire l’auto del popolo progettata dall’ingegner Ferdinand Porsche. Gli eredi di Ferdinand (le famiglie Piëch e Porsche, appunto, non sempre in armonia tra loro) controllano il gruppo con il 52,2% dei diritti di voto attraverso la Porsche Automobil Holding SE di Stoccarda, ma una volta seduti sulle poltrone del Supervisory Board, la conta finale sulle scelte strategiche può non rispecchiare il peso degli azionisti di riferimento. Metà di queste venti poltrone sono infatti riservate ai rappresentanti dei lavoratori, due sono dei rappresentanti della Bassa Sassonia, detentore del 20% dei diritti di voto, e le restanti otto vanno agli altri azionisti, compresa la holding del Qatar che ha il 17 per cento.

Non è dunque raro che tra la Bassa Sassonia e il sindacato si crei un asse in grado di bloccare piani di ristrutturazione che potrebbero avere un impatto pesante sui livelli occupazionali delle fabbriche in Germania, dove lavorano circa 110mila persone. Ed è quello che potrebbe succedere prossimamente dopo il recente annuncio, da parte dello stesso Diess, di 7.700 tagli in aggiunta ai 30mila concordati in un piano precedente attraverso prepensionamenti e parziale blocco del turnover.
L’annuncio, assieme alla ventilata possibilità di destinare alla produzione delle auto elettriche anche un impianto low cost in Europa dell’Est o in Turchia, oltre a quelli tedeschi di Zwickau, Emden e Hannover, hanno innervosito il potente capo del consiglio dei lavoratori, Bernd Osterloh.
L’ultima assemblea generale dei lavoratori a Wolfsburg è stata piuttosto tesa, ma va riconosciuto che il sindacato, in questo caso IG Metall, negli ultimi decenni ha sempre mostrato una certa dose di pragmatismo.

I NUMERI
Fonte: Volkswagen Group Annual Report 2018

Resta da vedere se, sotto la spinta del rinnovamento indotto dagli investimenti nell’auto elettrica, Volkswagen riuscirà a mantenere quel patto sociale che dal 1993, l’anno in cui fu introdotta la settimana lavorativa di quattro giorni, ha evitato fino a oggi riduzioni del personale attraverso licenziamenti.

La settimana corta è stata l’invenzione di un’epoca lontana, la risposta a un crollo della capacità di utilizzo degli impianti che avrebbe messo in pericolo 30mila posti. Si decise che per continuare a far lavorare tutti i dipendenti sarebbe stato meglio farli lavorare meno, con conseguente riduzione dello stipendio.

““Nel 2016, con la firma del ’Patto per il futuro’, il gruppo si è impegnato a non procedere con licenziamenti per ristrutturazione aziendale fino al 2025””

Francescantonio Garippo, IG Metall, membro del consiglio di fabbrica a Wolfsburg 

Negli anni seguenti Volkswagen è così diventata il più importante laboratorio di relazioni industriali della Germania. Ci sono stati round negoziali azienda-sindacato con accordi che hanno visto il congelamento dei salari e una maggiore flessibilità degli orari in cambio del mantenimento dei livelli occupazionali. E si è dato un certo sfogo alla creatività lanciando all’inizio del nuovo millennio il programma conosciuto con la formula “5.000 x 5.000” (5mila marchi di stipendio lordo per 5mila nuove assunzioni) per lanciare a Wolfsburg la produzione della Touran.

Fu in realtà uno schema di “esternalizzazione interna” attraverso la creazione di una filiale Volkswagen, “Auto 5.000 GmbH”, che avrebbe assunto gli addetti alla produzione del nuovo modello con uno stipendio inferiore del 20-30% rispetto a quello della casa madre e un orario settimanale che poteva arrivare fino a 42 ore.

LA STRUTTURA AZIONARIA
Quote di capitale sottoscritto al 31 dicembre 2018. (Fonte: Volkswagen Group Annual Report 2018)

Il “laboratorio” ha prodotto tra le altre cose un direttore delle Risorse Umane, Peter Hartz, socialdemocratico e amico del cancelliere Gerhard Schröder , autore della più importante riforma del lavoro nella Germania del dopoguerra. E spesso i direttori delle Risorse Umane che si sono succeduti a Hartz venivano dal sindacato ed erano comunque vicini all’Spd.
«Non vogliamo certo impedire lo sviluppo dell'azienda, non l’abbiamo mai fatto - racconta Francescantonio Garippo, storico componente del consiglio di fabbrica, in Vw da 43 anni, uno dei tanti italiani che hanno contribuito al successo della casa automobilistica e che da decenni vivono e lavorano a Wolfsburg -. Ricordiamo soltanto che nel 2016, con la firma del “Patto per il futuro”, il gruppo si è impegnato a non procedere con licenziamenti per ristrutturazione aziendale fino al 2025. Poi possiamo discutere sul resto, ma dobbiamo stare attenti a valutare bene quale potrà essere lo sbocco reale, sul mercato, dell’auto elettrica. Se a tanto sforzo tecnologico e finanziario e alla richiesta di sacrifici sul personale corrisponderà alla fine un’adeguata domanda, sostenuta inoltre da infrastrutture che non potranno essere completamente a carico del produttore».

LA DISTRIBUZIONE DEI DIRITTI DI VOTO
Fonte: Volkswagen Group Annual Report 2018

A differenza del passato, però, il problema degli organici rischia di essere strutturale con la transizione verso l’auto elettrica, e non più congiunturale, anche perché il marchio Volkswagen continua a soffrire di bassa redditività, con un margine che al 4,5% è circa la metà di quello di Audi. Secondo gli esperti è sufficiente sollevare il cofano per rendersi conto di come questa nuova tipologia di veicoli abbia bisogno del 20-30% di manodopera diretta in meno. E i tempi dettati dal nuovo management per l’avvento del motore elettrico sono incalzanti. Dopo e-Tron da parte di Audi arriverà la Porsche con Taycan e Seat con el-Born. «Questa non è una crisi, che in passato abbiamo affrontato e risolto più volte - ammette Garippo -, è una rivoluzione industriale».

La sfida è in Cina e contro la Cina
La vera onda d’urto di questa rivoluzione arriverà l’anno prossimo con l’ingresso sul mercato della gamma ID, considerata la terza era del marchio Volkswagen dopo il Maggiolino e la Golf, che sarà declinata sotto forma di berlina, suv, crossover e van. Sarà allora che la casa tedesca entrerà nell’arena della produzione e della vendita di massa della e-mobility. ID è una famiglia costruita sul nuovo pianale elettrico Meb (Modularer Elektrifizierungsbaukasten) la cui modularità e flessibilità lo renderà sfruttabile per almeno una cinquantina di modelli diversi.

L’invenzione del Meb, il numero dei marchi, la notevole capacità finanziaria, la posizione di assoluto rilievo del gruppo in Cina, dove ha una quota del 18,5% e dove il mercato dell’auto elettrica cresce più rapidamente che in Europa e negli Stati Uniti, certificano il grande vantaggio competitivo del gruppo: la capacità di generare grandi economie di scala.

«Questi vantaggi permettono di concentrare i nostri sforzi sull’innovazione e di accelerare il ritmo di produzione e ingresso sul mercato - spiega un alto dirigente del gruppo -. Abbiamo acquisito la giusta velocità di crociera e non possiamo distrarci con acquisizioni importanti: sono operazioni sofferte e l’integrazione richiede tempi lunghi».

Ed è anche per questo che l’alleanza con Ford resta commerciale e tecnologica, concentrandosi sulla possibile fornitura agli americani della piattaforma Meb in cambio di know-how sulla guida autonoma, sulla quale però la casa tedesca resta piuttosto fredda.

In questo immane sforzo tecnologico, produttivo e finanziario, c’è un’attenzione parallela, ossessiva, rivolta alla Cina e in parte alla Corea del Sud, dove secondo Dudenhöffer ci sono i veri concorrenti: «Greatwall e soprattutto Geely, che ha capito l’importanza del brand comprando Volvo e diventando azionista di riferimento di Daimler e acquistando il 50% di Smart, sono i più temibili. Anche Kia Motors si muove bene e con rapidità».

Herbert Diess ha preso la responsabilità diretta delle attività in Cina, che rappresenta il 39% delle vendite globali e dove il gruppo spera di replicare anche nell’elettrico l’enorme successo degli ultimi decenni. Nei prossimi due anni conta di presentare sul mercato 30 nuovi modelli, metà dei quali costruiti in loco grazie alle due joint venture storiche. È qui che la sempre ambiziosa Volkswagen giocherà la doppia sfida per il primato mondiale: in Cina e contro la Cina.

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