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Via della Seta, la Cina prova a rassicurare sul rischio debito

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Via della Seta, la Cina prova a rassicurare sul rischio debito

Nulla deve disturbare la grande cerimonia della Nuova via della seta, organizzata da Pechino per celebrare «il progetto del secolo», lanciato dal presidente Xi Jinping nel 2013. E con essa lo strapotere politico, economico e culturale della Cina: 37 capi di Stato e di Governo sono stati convocati nella capitale per partecipare al secondo Belt and Road forum , dopo quello del 2017. Nessuna nube deve oscurare il cielo di Pechino, men che mai l’allarme sulla sostenibilità finanziaria di un progetto che mette alle corde i partner più deboli e ne spinge alcuni, come Malesia e Thailandia, a ridimensionare o cancellare gli impegni.

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Così, ieri, il ministro delle Finanze Liu Kun ha provato a mostrare il volto gentile del regime. Pechino, ha assicurato Liu, adotterà forme di finanziamento «stabili e sostenibili», in cooperazione con banche e istituzioni multilaterali. Per evitare che partecipare alla Bri porti al collasso delle finanze pubbliche. Come sta succedendo al Pakistan, Paese centrale nella Belt and Road Initiative (Bri), con progetti per 90 miliardi di dollari, e al tempo stesso costretto a chiedere il salvataggio dell’Fmi. Altro caso eclatante è lo Sri Lanka: il Governo non riesce a ripagare il debito contratto per i lavori sul porto di Hambantota e la società cinese che li ha realizzati ne ha “confiscato” le operazioni per 99 anni.

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Gran parte delle opere della Bri sono realizzate da aziende di Stato cinesi e pagate dai Paesi che li ospitano, attraverso prestiti contratti con banche cinesi. Molti di questi Paesi, spesso economie in via di sviluppo con finanze deboli e vulnerabili alla corruzione, fanno fatica a ripagare il debito. Parte degli accordi, inoltre, sono coperti da segreto.

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Le banche cinesi hanno erogato prestiti per 440 miliardi di dollari per finanziare porti, aeroporti e strade della Bri. Altri 75 miliardi sono stati raccolti attraverso obbligazioni.

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Pechino teme che le proteste dei leader asiatici e africani guastino il clima del forum. Ecco allora le parole del ministro Liu. Precedute da un segnale distensivo più concreto. Secondo quanto annunciato giovedì da Addis Abeba, la Cina ha condonato gli interessi vantati nei confronti dell’Etiopia per il 2018.

Nelle intenzioni del regime, attraverso la nuova Via della seta deve passare, insieme alla forza economica e politica della Cina, anche la legittimazione della sua leadership. Le basi, insomma, di una ambita egemonia culturale. Così come è stato con il piano Marshall per gli Stati Uniti, la Bri serve anche a costruire quello che nelle relazioni internazionali si chiama soft power: a proiettare l’immagine di Pechino come punto di riferimento benevolo, al quale allinearsi di buon grado. Uno sforzo già proibitivo per un regime autoritario (perfino in un’epoca di fascinazione per i leader forti) e che diventerebbe vano se gli investimenti nella Bri si rivelassero «trappole del debito», come alcuni avvertono.

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Dalla sua, Pechino ha un alleato inatteso: l’aggressiva politica estera della casa Bianca di Donald Trump, che isola sempre più gli Usa. Alla vigilia del Forum, il ministro degli Esteri Wang Yi ha presentato la Bri come l’«alternativa a protezionismo e unilateralismo». Se da un lato si registrano defezioni e ripensamenti, dall’altro la rete della Bri continua ad allargarsi. A marzo c’è stata l’adesione dell’Italia, presto potrebbe arrivare quella del Perù, secondo quanto annunciato mercoledì.

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