Tutto è cominciato con i dazi su pannelli solari e lavatrici cinesi (e sudcoreani), decisi il 22 gennaio del 2018. Solo un assaggio di quel che sarebbe seguito: le merci tassate valevano poco più di 10 miliardi di dollari, una frazione delle importazioni statunitensi dalla Cina. L’innesco dell’escalation che, nel giro di un anno, ha travolto la metà dell’interscambio tra le prime due economie del mondo. E che presto potrebbe arrivare a coinvolgere l’intero flusso commerciale bilaterale, circa 800 miliardi di dollari, il 16% degli scambi mondiali.
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Attualmente, gli Stati Uniti impongono dazi su 250 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina (poco meno della metà dei
500 miliardi totali del 2017, il dato sulla cui base l’Amministrazione Usa ha ragionato). Su 50 miliardi, soprattutto beni
agricoli, i dazi sono stati fissati al 25% già lo scorso anno. Su altri 200 miliardi, sono stati appena alzati dal 10 al
25%. La Cina ha reagito tassando 110 miliardi di dollari di merci americane (su 130 miliardi di import complessivo dagli Usa
nel 2017), con dazi al 25% su 50 miliardi di dollari di prodotti e all’8% sugli altri 60. Quasi tutto l’export agricolo degli
Usa verso la Cina è soggetto a tariffe.
In tutto 360 miliardi di dollari di interscambio sono già stati coinvolti dalla guerra dei dazi. Ora il presidente Usa Donald Trump minaccia tariffe del 25% su altri 325 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina, attualmente non tassati alle dogane. Quando entreranno in vigore, tutte le merci esportate dalla Cina negli Stati Uniti (che nel 2018 sono cresciute da 505 a 540 miliardi) saranno soggette a balzelli. Lo stesso avverrà per i prodotti made in Usa comprati dalla Cina, in caso di ritorsione uguale e contraria da parte di Pechino.
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I beni colpiti dall’aumento dei dazi dal 10 al 25% sono in gran parte beni capitale e beni intermedi, come micorprocessori, circuiti stampati, componenti auto e macchinari. In tutto, l’elenco comprende oltre 5.700 differenti prodotti. Ci sono anche 40 miliardi di dollari di beni di consumo: arredamento, calzature sportive, abbigliamento, decorazioni natalizie, allarmi anti-incendio, elettronica (poca) e generi alimentari. L’aumento costerà alle famiglie americane in media 767 dollari l’anno, secondo Trade Partnership Worldwide, un centro studi che collabora con le lobby contrarie ai dazi.
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Finora gli esportatori cinesi hanno cercato di assorbire, insieme ai rivenditori americani, gran parte dell’aumento dei prezzi, sacrficando i margini. Con dazi che passano dal 10 al 25%, diventerà però inevitabile scaricare l’impatto sul consumatore finale, come avvisa Jake Parker, vicepresidente dello Us-China Business Council. Secondo un recente studio di ricercatori della Federal Reserve e dell’Università di Chicago, in seguito alle tariffe del 20% sulle lavatrici (quelle imposte a gennaio), i prezzi degli elettrodomestici sono saliti del 12% negli Usa: per i consumatori americani questo si è tradotto in un extra-costo di 1,5 miliardi di dollari. Secondo uno studio della Fed di New York e delle Università della Columbia e Princeton, nel complesso consumatori e imprese americani pagano 3 miliardi di dollari in più in tasse al mese. Le inefficenze generate dai dazi generano un costo ulteriore di 1,4 miliardi di dollari al mese.
Tra i 325 miliardi di dollari di beni cinesi, sui quali ora pende la minaccia di nuovi dazi, ci sono circa 112 miliardi di dollari di beni di consumo: iPhone, elettronica, giocattoli che finora erano stati in larga parte risparmiati dell’offensiva della Casa Bianca, per evitare che il pubblico americano ne sentisse il peso sul proprio portafogli. La procedura per passare dalle minacce ai fatti non è comunque rapida: l’ufficio dello Us Trade Representative, l’agenzia guidata dal falco Robert Lighthizer, deve prima stilare l’elenco dei beni da tassare e poi aprire una discussione coinvolgendo (anche in audizioni) operatori e soggetti economici interessati. Serviranno settimane se non mesi.
Nel frattempo potrebbe arrivare la reazione di Pechino: nelle precedenti ritorsioni, ha imposto dazi al 25% sui prodotti agricoli statunitensi, contribuendo alla flessione di un terzo delle esportazioni Usa. Una mossa probabile potrebbe essere ora quella di alzare al 25% i dazi sui 60 miliardi di dollari di import al momento tassati all’8%, soprattutto semiconduttori e prodotti chimici.
Mal di protezionismo
Per il Fondo monetario internazionale, le incertezze generate in investitori e imprese dalle tensioni commerciali sono una
delle principali cause del rallentamento della crescita globale stimata per il 2019 (3,3%, contro il 3,6% del 2018) e uno tra i primi fattori di rischio per la «precaria ripresa» attesa nel 2020 (3,6%). Per
la Wto, il commercio mondiale rallenterà quest’anno al 2,6% dal 3% del 2018. Il mal di protezionismo colpisce soprattutto le economie a forte vocazione manifatturiera e all’export (come Germania e
Italia).
Gregory Daco, di Oxford Economics, stima che i dazi del 25% su 200 miliardi di dollari di import dalla Cina, nel 2020 costeranno agli Stati Uniti lo 0,3% del Pil e lo 0,8% alla Cina. In caso di dazi sull’intero interscambio, l’anno prossimo la crescita mondiale perderebbe lo 0,5%. Della stessa misura il “danno” per gli Usa, mentre la Cina perderebbe l’1,3%.
Per Barclays, dazi al 25% su 200 miliardi di dollari di beni cinesi potrebbero ridurre la crescita di Pechino dello 0,5%. La perdita raddoppierebbe a un punto percentuale di Pil se entrassero in vigore anche i balzelli sugli altri 325 miliardi di dollari di prodotti made in China.
Nel primo trimestre del 2019, quando il Pil Usa è cresciuto del 3,2% con dati molto positivi sull’occupazione, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti si sono ridotte del 9% su base annua. Quelle americane verso la Cina sono crollate del 30%. Il disavanzo commerciale Usa è passato da 91 a 80 miliardi di dollari (-12%). In tutto, l’interscambio tra i due Paesi è sceso di 25 miliardi di dollari, pari allo 0,5% del commercio mondiale. Nel 2018, il deficit commerciale Usa nei confronti della Cina era salito a 419 miliardi di dollari, dai 375 del 2017.
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