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lo scontro con trump

L’Iran paga il conto delle sanzioni Usa: lunga recessione dietro l’angolo

Se scoppierà una guerra sarà un disastro. Per tutta la regione. Ma anche se non dovesse esserci un confronto militare tra Stati Uniti e Iran, come ripetutamente si augurano i due rispettivi capi di Stato, l’economia iraniana si appresta comunque a vivere tempi difficilissimi. La recessione iniziata l’anno scorso accuserà un deciso peggioramento quest’anno e potrebbe essere ricordata come una delle peggiori dai tempi della Rivoluzione iraniana, 40 anni fa.

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Le sanzioni più dure di sempre, volute da Donald Trump, cominciano a manifestare i loro effetti. Un recente rapporto elaborato da Oxford Economics sottolinea come questa volta il conto che pagherà la Repubblica islamica sarà più salato e durerà più a lungo rispetto a quanto avvenuto nel periodo 2013-2015, quando alle sanzioni americane era affiancato anche l’embargo petrolifero europeo, entrato in vigore il primo di luglio del 2012. Allora, nell’anno peggiore, per l’appunto il 2012, il Prodotto interno lordo iraniano si contrasse del 7,7 per cento. Ma già l’anno dopo la recessione era pressoché terminata (-0,3%).

La decisione di Donald Trump, l’8 maggio del 2018, di abbandonare unilateralmente l’accordo sul nucleare firmato dal gruppo 5+1 e l’Iran, ha fatto scattare nuovamente le sanzioni americane. Il primo round in luglio-agosto, il secondo e più severo in novembre, e un terzo annunciato pochi giorni fa. Il colpo si è fatto sentire subito. Caduta nuovamente nella recessione (-3,9%) nel 2018, nel 2019 l’economia accuserà una contrazione di almeno il 7 per cento (secondo alcuni analisti sarà peggiore). Un dato ricavato calcolando per quest’anno un declino del settore petrolifero pari al 35%, e una produzione di 2,4 milioni di barili al giorno (mbg), 1,2 mbg in meno rispetto alla produzione del 2018. Quanto al 2020, la recessione dovrebbe trascinarsi ancora.

Per la maggior parte degli 80 milioni di iraniani saranno tempi davvero bui. Lo scenario tracciato dagli analisti internazionali è desolante. L’inflazione, che nel 2018 ha già toccato un picco del 40%, rischia di superare il 50 per cento. La caduta libera del riyal, che ha ceduto il 100% in 12 mesi, ha eroso il potere di acquisto delle grandi compagnie iraniane sui mercati internazionali.

L’euforia del 2015 ha subito ceduto il posto alla rassegnazione. Lo storico accordo, siglato nell’estate del 2015 sotto la supervisione di Barack Obama, era stato seguito all’inizio del 2016 dalla rimozione delle sanzioni internazionali, incluso l’embargo petrolifero dell’Unione Europea. L’economia era così decollata, segnando un incremento del Pil del 12,5% nel 2016 e del 3,7% l’anno seguente. Un mercato da oltre 300 miliardi di dollari si apriva al mondo. Businessmen e manager delle grandi multinazionali affollavano gli hotel di Teheran in attesa di essere ricevuti dalle autorità. Certo, si era trattato di un boom senza benessere generale. Ma la popolazione confidava in un rilancio capace di portare a una distribuzione della ricchezza.

Ora il presidente Hassan Rouhani, il clerico moderato che piace ai Paesi europei (riconfermato nel maggio 2017) dovrà convincere il suo team a far quadrare i conti pubblici. Cosa che non sarà facile. Nonostante i tempi bui, il budget approvato lo scorso marzo ha visto un aumento della spesa pari al 16 per cento. Il motivo? Mantenere i programmi sociali di sostegno alla popolazione, aumentare gli stipendi degli impiegati in modo da bilanciare gli effetti dell’inflazione, vendere valuta pregiata alle imprese a un tasso di cambio inferiore a quello dei mercati. Soltanto per mantenere i sussidi sugli alimenti di base e sulle medicine sono stati allocati quest’anno 14 miliardi di dollari. Da sempre un vanto del regime, i sussidi e i programmi sociali hanno permesso agli ayatollah di restare al potere 40 anni, ma si sono rivelati una zavorra sui conti pubblici, oggi non più sostenibile. Anche perché assorbono più della metà del budget.

Le cose si stanno dunque mettendo male. Quando il team di Rouhani ha pianificato il budget per quest’anno, ha peccato di ottimismo. Il bilancio è stato ottenuto calcolando esportazioni pari a 1,5 milioni di barili al giorno. A inizio maggio Trump ha interrotto le esenzioni che aveva concesso agli otto maggiori Paesi importatori di greggio iraniano. Ma già prima di questa decisione, l’Iran non riusciva ad esportare più di 1,3 milioni di barili al giorno. Meno della metà del volume di petrolio venduto all’estero prima dell’uscita dall’accordo sul nucleare decisa da Trump. Secondo diversi osservatori, da qui alla fine dell’anno Teheran non sarà in grado di esportare più di 500mila barili al giorno. La contrarietà di Cina e Turchia alle sanzioni americane porterà poco sollievo alle casse degli ayatollah.

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