Colpa dell’Europa, colpa dell’euro. Dopo le contorsioni di Brexit, sono frasi che non si sentono più, almeno non con la forza di prima. Gli scettici hanno un po’ cambiato registro, chiedono una riforma radicale dell’Unione e, soprattutto, del suo regime monetario, ma non più una vera e propria uscita in nome di un malinteso sovranismo economico. La sostanza, però, cambia poco: le forze populiste restano decisamente euroscettiche e in Italia, tra l’ansia per lo spread e la brama per maggiori spese pubbliche, la vis polemica resta in ogni caso forte. I dati macroeconomici, però, raccontano una storia un po’ più articolata rispetto agli slogan politici.
Disoccupazione in calo
Cosa è successo all’Italia con l’ingresso nell’euro? Qualcosa di molto positivo, innanzitutto: un forte calo della disoccupazione, scesa da persistenti livelli superiori all’11% fino a un minimo del 5,8% nell’aprile del 2007. Hanno aiutato probabilmente i tassi di interesse relativamente bassi, forse più bassi di quanto le condizioni dell’economia italiana richiedessero. Solo la Grande recessione, che è stata qualcosa in più di una mera contrazione ciclica dell’attività economica, ha riportato la disoccupazione a livelli elevati. A quel punto l’Italia non è stata più in grado di recuperare, malgrado tassi a zero e quantitative easing della banca centrale.
Produttività stagnante
Il problema è la produttività, che resta stagnante da tempo, e costringe quindi anche i salari reali a restare fermi. Il problema viene da lontano. Dati raccolti da un’analisi dell’Università di Groningen sulla produttività multifattoriale, che misura la capacità di un Paese di “mettere insieme” in modo efficiente capitale e lavoro (e quindi soprattutto innovazione tecnologica e competenze dei lavoratori), mostrano un lungo rallentamento, dopo la crescita del periodo del “miracolo economico”, una lunga fase di stasi e poi una ripresa della decelerazione che ben presto si trasforma in una vera e propria marcia indietro in coincidenza dell’introduzione dell’euro quando, secondo alcune analisi - a cominciare da quelle di Gita Gopinath, oggi capoeconomista del Fondo monetario internazionale - un costo del credito troppo basso ha mantenuto in vita, nel nostro Paese come in altre economie del Sud Europa, aziende inefficienti che sarebbero altrimenti fallite. Non è certo questo l’unico fattore di freno alla produttività, ma sarebbe sbagliato sottovalutarlo.
Export in crescita
Non si può dire, però, che abbia sofferto la “competitività” dell’Italia (ammesso che questo concetto abbia senso per un’intera economia). Le esportazioni, in volumi, sono infatti aumentate, a un ritmo medio dello 0,9% mensile prima della crisi e dello 0,85% nel tormentato periodo successivo. Segno che le aziende italiane aperte alla concorrenza internazionale sono in grado di competere senza grandi difficoltà malgrado l’assenza di una moneta e cambi nazionali.
Inflazione sotto controllo
L’ingresso nell’euro, con la conseguente “cessione” alla Banca centrale europea, del compito di gestire la politica monetaria ha portato a una forte flessione dell’inflazione, in un Paese particolarmente incline alle fiammate sui prezzi (soprattutto prima del divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia). La dinamica del costo della vita, prima della grande recessione, è rimasta un po’ più vivace rispetto alla media di Eurolandia - un altro segnale, forse, di tassi troppo bassi - ma non si è mai tornati ai livelli precedente. Un buon risultato per lavoratori dipendenti (l’inflazione, oltretutto, morde di più chi è meno abbiente) e risparmiatori.
Basso costo del credito
L’ingresso in Eurolandia ha anche permesso alle banche di concedere alle imprese prestiti a tassi decisamente più bassi rispetto al periodo precedente. A ottobre 2008, con i prezzi surriscaldati per il rialzo del petrolio, il costo del credito aveva raggiunto il livello abbandonato a fine ’98, ma nulla di più. Meno lineare l’andamento dei tassi reali, soprattutto nel periodo 2012-2017, ma in questo caso è ancora più evidente che il costo del credito è rimasto a livelli inferiori a quelli del periodo pre-euro.
Prestiti in difficoltà nel dopo crisi
In questo modo, non si è avvertita nessuna soluzione di continuità, tra il periodo precedente e quello successivo all’ingresso nell’euro, nell’andamento dello stock di prestiti concessi alle imprese. Persino la Grande recessione ha visto solo un rallentamento, seguito dal tentativo di riprendere il trend originale. La crisi esplosa in Grecia nel 2010, però, ha visto una stasi nella concessione del credito seguita da una flessione dello stock che continua fino a oggi e segnala le difficoltà del sistema produttivo e bancario italiano.
Rendimenti in calo
L’andamento di tassi bancari e prestiti è sicuramente legato a quello dei rendimenti dei titoli di Stato, che costituiscono un “pavimento” per il costo del credito. L’ingresso nell’euro ha visto una flessione dei rendimenti dei decennali, che per diversi anni hanno oscillato tra il 4 e il 5% circa, per poi risalire fino a sfiorare il 6% durante la crisi del debito sovrano, che ha visto l’Italia particolarmente vulnerabile. Nel periodo precedente l’ingresso in Eurolandia, ed escludendo la fase finale di convergenza, i rendimenti dei decennali non erano mai scesi sotto l’8,8%. Prima della Grande recessione, l’Italia ha anche goduto di uno spread con i Bund decennali vicinissimo allo zero, salvo poi assistere a una sua impennata con la crisi. Fuori dell’euro lo stesso differenziale non era mai calato, nelle medie mensili, sotto quota 257.
L’austerità-che-non-c’è
Gran parte delle polemiche contro Bruxelles riguarda però la gestione della spesa pubblica. Si è parlato spesso di austerità, ma di questa non vi è traccia. La spesa pubblica in Italia ha continuato ad aumentare a un ritmo invariato fino alla Grande recessione, quando il limitato spazio fiscale e il nervosismo dei mercati ha imposto il rallentamento. Nei dati annuali - rilevati però ogni trimestre - si è assistito in alcuni casi a una flessione, ma si è sempre trattato di eventi isolati, prontamente corretti, mai di una tendenza.
L’equivoco della crescita
Non si può neanche dare troppa importanza - sul piano strettamente economico - ai vincoli di bilancio imposti dalla Ue; e non solo perché la reazione dei mercati è immediata e ineludibile. Il dibattito pubblico italiano si fonda tutto sull’idea sbagliata che il deficit statale sia un fattore (anzi: “il” fattore) di crescita economica. In realtà non è così, ha concluso la ricerca: le politiche fiscali possono sostenere la domanda durante le recessioni e poco più. Anche a uno sguardo superficiale, il rapporto tra il disavanzo e la variazione del Pil mostra addirittura che aumentando il deficit la crescita annua del Pil - in termini assoluti - diminuisce. Eliminare l’outlier, il dato anomalo del 2009, isolare alcuni anni pre-crisi, e prendere in considerazione, per la crescita, un periodo di due anni, non cambia davvero i risultati. La spesa pubblica può dunque avere una funzione sociale, mentre il mondo politico può illudersi che abbia anche un ruolo nelle elezioni (che però a volte si perdono comunque); la crescita è però figlia di lavoro, capitale, tecnologia, competenze, e un ambiente (anche aziendale) favorevole.
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