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Braccio di ferro tra Iran e Stati Uniti, produzione di uranio quadruplicata

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Servizio |l’escalation nel golfo

Braccio di ferro tra Iran e Stati Uniti, produzione di uranio quadruplicata

L’intervento più efficace, lunedì, è stato probabilmente quello del ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas. «La mia grande preoccupazione non è che gli Stati Uniti vogliano andare in guerra, e non penso che lo voglia neppure l’Iran. Ma in quella regione al momento ci sono tensioni tali che basta un nonnulla per dare vita a un’escalation». Washington, Teheran, Bruxelles. Tutti, o quasi, gli attori coinvolti (direttamente e indirettamente) nella crisi del Golfo Persico assicurano che non c’è alcuna intenzione di dar vita a una guerra. Nei fatti, tuttavia, la situazione sta gradualmente precipitando, e i fattori di crisi, potenzialmente capaci di accendere le polveri, stanno aumentando anziché diminuendo.

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Se il conflitto potenziale, quello tra Iran e Stati Uniti resta finora limitato allo scambio di parole bellicose e alle manovre militari (da parte degli Usa), quello esistente tra la coalizione guidata dall’Arabia Saudita e i ribelli yemeniti Houti sta vivendo una preoccupante escalation. Scoppiato nel 2015 , quando Riad è intervenuta nel conflitto in corso in Yemen contro i ribelli anti-governativi Houti, sciiti sostenuti - almeno politicamente - dall’Iran - negli anni successivi questa crisi è stata etichettata come il conflitto dimenticato. Nonostante più di 10mila civili rimasti uccisi, in gran parte dai bombardamenti della coalizione saudita, appoggiata logisticamente anche dagli Usa. Da alcuni mesi non più.

La scorsa settimana la formazione filo-iraniana che controlla la capitale yemenita Sana’a aveva rivendicato il lancio di due droni bomba contro due stazioni di pompaggio di petrolio nei dintorni di Riad. Washington e Riad avevano subito puntato il dito contro Teheran. Ieri mattina altri due gravi episodi. Le autorità saudite hanno riferito di aver intercettato all’alba altri due missili balistici lanciati dai ribelli Houthi. Secondo l’emittente al-Arabiya, il primo missile, di fabbricazione iraniana, è stato intercettato sulla città di Taif, nella parte sud del regno saudita, a pochi km dalla città santa dell’Islam della Mecca, città contro cui sarebbe stato lanciato un altro missile, neutralizzato, nel luglio del 2017. Le autorità locali ritengono che fosse proprio la città sacra, l’obiettivo dell’attacco. Un secondo razzo è stato intercettato invece sui cieli della città di Gedda, sul Mar Rosso. Le autorità militari Houti hanno però seccamente smentito di aver lanciato un missile contro la Mecca.

Dal canto suo il regime iraniano vuole mostrare al mondo di voler far sul serio. Dopo aver annunciato di voler abbandonare in parte l’accordo sul nucleare, riprendendo anche la fase di arricchimento oltre le soglie proibite se gli altri Paesi firmatari dell’accordo non riprenderanno le relazioni commerciali con l’Iran entro 60, alcuni giorni fa Teheran ha annunciato di aver quadruplicato la propria produzione di uranio a basso arricchimento utilizzato come combustibile per i reattori nucleari. Senza però oltrepassare la soglia di arricchimento del 3,67%, prevista per garantirne l’uso a scopo soltanto civile, e senza aumentare le centrifughe attualmente in uso, altro vincolo dell’accordo. Entro qualche settimana al più tardi, l’Iran sarà così in grado di superare il limite di 300 kg di uranio arricchito, fissati dal Piano di azione congiunto (Jcpoa) , l’accordo sul nucleare firmato nell’estate del 2015 dal gruppo 5+1 (Russia, Cina, Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti)e l’Iran. Un accordo il cui obiettivo principale era consentire all’Iran di sviluppare energia nucleare a fini civili ma non un arsenale atomico.

Teheran ha dunque posto un ultimatum all’Europa. Che ha risposto compatta: nessun ultimatum da parte iraniana è accettabile. Siamo davanti a un’empasse difficile da risolvere. Anche sul fronte diplomatico. Trump aveva detto di essere pronto ad ascoltare le autorità iraniane qualora decidessero di dialogare. Ieri il presidente iraniano Hassan Rouhani ha rigettato ogni trattativa con Washington. C’è un’altra scadenza,di cui si parla poco. Il 4 maggio l’amministrazione Trump ha deciso di rinnovare per soli 90 giorni anziché 180 le esenzioni sulla cooperazione nucleare civile con l’Iran. Cosa significa? Che ai primi di agosto potrebbe saltare anche la collaborazione dei partner internazionali al programma nucleare a scopi civili.

Come rileva Annalisa Perteghella, ricercatrice dell’Ispi, le esenzioni americane, in particolare, riguardano la cooperazione internazionale per la riconversione dell’impianto nucleare di Arak, per la riconversione dell’impianto sotterraneo di Fordow in un centro di ricerca, e la gestione del reattore dell’impianto di Bushehr, allo scopo di produrre elettricità. Una volta venute meno le esenzioni, i Paesi in questione - Russia, Cina, ma anche europei come il Regno Unito - saranno posti di fronte a una scelta: continuare a cooperare con Teheran, in ottemperanza al Jcpoa, incorrendo però nelle sanzioni statunitensi, oppure cessare la cooperazione nucleare civile con Teheran, violando però in questo modo essi stessi gli impegni presi con l’accordo. Sarebbe il definitivo fallimento dell’intesa.

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