Sono gli importatori Usa i veri perdenti nella guerra dei dazi tra Washington e Pechino. Secondo un’indagine del Fondo monetario internazionale, le imprese che acquistano prodotti made in China per rivenderli sul mercato americano hanno assorbito gran parte del rialzo dei prezzi, sacrificando i margini.
L’indagine, firmata dal capo-economista Gita Gopinath, da Eugenio Cerutti e da Adil Mohommad, dimostra poi che il calo delle importazioni Usa dalla Cina potrebbe essere compensato dall’aumento dell’import dal Messico, senza pertanto incidere sul deficit complessivo degli Stati Uniti, ma semplicemente spostando i flussi commerciali. Quanto agli effetti dell’escalation della guerra dei dazi sul Pil mondiale, con tariffe sull’intero ammontare dell’interscambio tra Cina e Usa, l’Fmi stima una perdita dello 0,3%.
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Chi paga i dazi
L’indagine prende in esame gli effetti dei i dazi imposti nel corso del 2018, prima quindi dell’ultimo aumento al 25% su 200
miliardi di dollari di import cinese, annunciato il 10 maggio, e della ritorsione di Pechino.
Il peso di quei balzelli, si legge nel report, è stato sostenuto soprattutto da importatori e consumatori. Gli esportatori cinesi non hanno modificato i loro prezzi, lasciando alle imprese importatrici americane il compito di assorbire i dazi e sacrificare i margini per non ridurre le vendite. Solo una parte delle tariffe è stata infatti scaricata sui consumatori (questo è avvenuto soprattutto nel caso delle lavatrici, i primi prodotti a essere tassati nel gennaio del 2018). Una strategia che potrebbe cambiare quando andranno in vigore i nuovi e più alti dazi: a quel punto, comprimere i profitti potrebbe non essere più un’opzione.
Il risultato dell’indagine non può stupire. I dazi si comportano come tasse sull’acquisto di beni e, nonostante le affermazioni del presidente Usa Donald Trump, a pagarle non è il Paese esportatore (al massimo le imprese esportatrici possono decidere di abbassare i prezzi di vendita).
L’impatto diretto sull’inflazione negli Usa, continua la ricerca, può essere contenuto, ma potrebbe diventare più forte in caso di aumento dei prezzi da parte delle aziende domestiche che operano sul mercato “protetto” dai dazi (come appunto è avvenuto per le lavatrici).
Secondo uno studio della Federal Reserve di New York, l’aumento dei dazi al 25% su 200 miliardi di dollari di import dalla Cina, l’ultima salva sparata dal presidente Donald Trump, costerà 106 miliardi di dollari l’anno alle famiglie americane: in pratica, l’escalation costerà in media 800 dollari all’anno a ogni nucleo. Una stima in linea con quella di Trade Partnership Worldwide, un centro studi che collabora con le lobby contrarie ai dazi.
Chi guadagna con i dazi
Gli effetti sui produttori sono meno univoci: «Ci sono alcuni vincitori e molti perdenti», afferma la ricerca.
Tra i primi ci sono, negli Usa, le imprese che producono per il mercato domestico beni esposti alla concorrenza di prodotti importati dalla Cina, diventati, questi ultimi, meno competitivi per effetto dei dazi. Lo stesso discorso vale in Cina per chi produce beni in concorrenza con il made in Usa.
Tra i perdenti ci sono tutte le imprese negli Usa e in Cina che esportano i prodotti tassati, come tutte quelle che acquistano quei prodotti e li utilizzano come beni intermedi o componenti. Nell’elenco ci sono di sicuro i produttori di soia americani, che erano i principali fornitori della Cina e hanno visto le loro vendite su quel mercato crollare, insieme ai loro prezzi. Allo stesso tempo, sono aumentati i prezzi praticati dai produttori di soia brasiliani, che invece possono iscriversi tra i vincitori della guerra dei dazi dichiarata da Trump.
Schivare i dazi
I dazi spostano i flussi commerciali, altra regola ben nota alla teoria economica. Se il Paese che tassa l’import non ha capacità
produttiva inutilizzata da attivare, oltre a sperimentare un’aumento dei prezzi nel settore interessato, vede un reindirizzamento
dei flussi.
E infatti, la ricerca dell’Fmi sottolinea che la flessione delle importazioni Usa dalla Cina sono state compensate dall’aumento
delle importazioni da altri Paesi, soprattutto dal Messico. Dopo l’imposizione di dazi su 16 miliardi di beni importati dalla
Cina ad agosto del 2018, gli acquisti da quel Paese sono diminuiti di circa 850 milioni di dollari. Contemporaneamente, è
aumentato di circa 850 milioni di dollari l’import di quei prodotti dal Messico.
Effetto globale
L’Fmi lancia l’allarme da tempo. E nell’Outlook di aprile lo ha ribadito con forza, affermando che la guerra commerciale è la principale minaccia alla «delicata» congiuntura del 2019 e alla cagionevole ripresa
attesa per il 2020. L’aumento delle tariffe sull’intero interscambio tra Usa e Cina, afferma ora la ricerca, costerebbe al
Pil mondiale lo 0,3% nel breve termine, soprattutto attraverso il calo della fiducia dei mercati e degli operatori economici
e la frenata degli investimenti.
Non solo: le barriere tariffarie, ammonisce il Fondo, metteranno in crisi le catene globali di fornitura e produzione (global supply chain) e rallenteranno l’adozione e diffusione delle nuove tecnologie.
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