Le ultime elezioni europee avrebbero dovuto sancire la crisi delle «élite di Bruxelles», travolte dalla crescita di partiti
nazionalisti. Le urne, però, hanno incoronato due vincitori un po’ diversi: i partiti del gruppo dei Verdi e quelli affiliati
alla famiglia dell’Alleanza dei democratici e liberali in Europa, forti di 69 e 105 seggi ciascuno (contro i 52 e i 69 di
cinque anni fa). In totale fanno 174 seggi. L’alleanza orchestrata da Matteo Salvini nella Ue, nata sulle ceneri della famiglia
di destra Europa delle nazioni e delle libertà, non va oltre i 73 seggi.
Il boom rende Verdi e Alde indispensabili alla formazione di una maggioranza all’Eurocamera, dopo la fine di un duopolio
Popolari-Socialisti rimasto in piedi fin dal 1979. La crescita dei primi era nei pronostici grazie agli exploit già registrati
in un paese, la Germania, che detiene 96 dei 751 seggi dell’Eurocamera. Quello dei secondi sembra più spiazzante, almeno rispetto
alla narrativa che ha accompagnato la campagna elettorale: la crisi dei centristi, l’insofferenza per le élite liberali e
l’integrazione comunitaria, il desiderio di chiusura anziché di apertura dell’Europa.
Tre pulsioni smentite parzialmente dalla crescita di un gruppo come l’Alde, sbilanciato all’estremo opposto su tutti i fronti. In Europa i liberali raccolgono voti proprio al centro, capitalizzando la crisi incrociata di Popolari e Socialisti; insistono su temi ritenuti impopolari, come la riforma del regolamento di Dublino e la solidarietà fra paesi sulla distribuzione dei migranti; fanno della difesa del progetto europeo una delle principali ragioni di essere, anche al costo di abbracciare una politica di rigore assoluto sui conti che li fa scontrare con la destra e la sinistra estreme. Dopo le urne, l’Alde fa già da ago della bilancia nella formazione di una maggioranza pro-europea. Ora potrebbe esprimere anche il presidente della Commissione: Margrethe Vestager, la commissaria alla Concorrenza uscente, non sgradita al presidente francese Emmanuel Macron (che però le preferirebbe Michel Barnier) e capace di accontentare sia i Popolari che i Socialisti. A discapito dei rispettivi candidati originari, il tedesco Manfred Weber (Ppe) e l’olandese Frans Timmermans (Socialisti), nei fatti ritenuti sempre più fragili nelle trattative dei prossimi mesi.
L’effetto Macron e la Brexit
Rispetto al 2015, i liberali hanno guadagnato un totale di 36 seggi. L’exploit nasce più dall’ascesa circostanziata in alcuni
paesi, che da un’espansione omogenea del gruppo. Il paradosso è che i due paesi determinanti sono gli stessi che hanno trainato
la crescita dei sovranisti: Francia e Regno Unito. In Francia Emmanuel Macron ha subito il sorpasso dell’ultradestra del Rassemblement
national, ma i deputati della sua La République En Marche sono confluiti nell’Alde con una dote di 21 seggi. Il risultato,
spiega il ricercatore Ispi Antonio Villafranca, è che lo «sconfitto» Macron può presentarsi come garante dell’Alde e giocare
un ruolo di peso nelle nomine per l’Europa: «Proprio Macron, che ha perso in casa, si ritrova con più potere nella Ue - spiega
Villafranca - E può chiedere di pù sulle nomine, come sta già facendo con la Commissione». In Gran Bretagna, il boom elettorale
del Brexit Party di Farage (29 seggi) si è accompagnato alla crescita dei Lib-dem, premiati dall’elettorato ostile
al divorzio dalla Ue e insoddisfatto dalla linea ondivaga di Conservatori e Laburisti. I liberaldemocratici hanno conquistato
16 seggi, anche se la loro permanenza nell’Eurocamera ha una scadenza ben precisa: il divorzio di Londra dalla Ue, a seguito
del quale gli eurodeputati britannici dovranno cedere il posto ai colleghi europei rimasti in lista di attesa dopo le elezioni
del 23-26 maggio. Il deflusso dei parlamentari inglesi potrebbe indebolire la compagine dell’Alde, ma dopo aver archiviato
due snodi fondamentali per l’architettura istituzionale della Ue: l’elezione dei presidenti del Parlamento europeo e soprattutto
della Commissione, entrambi in agenda entro il 31 ottobre 2019. Il termine, teorico, della proroga concessa dai leader europei
a Londra per ottenere la ratifica dell’accordo di Brexit siglato da May con Bruxelles. «Quando si tratterà di far votare quelle
due nomine, i britannici saranno ancora in Parlamento e manterranno il peso attuale dell’Alde - dice Villafranca - Anche se
poi, ammesso che la Brexit vada in porto, finiranno fuori al momento di un altro appuntamento rilevante come la nomina del
presidente Bce o del Consiglio europeo. Che è comunque una questione fra Stati».
Una vittoria «inflazionata»?
Fuori dalla partita delle nomine, comunque, non è detto che l’Alde riesca a lavorare in maniera compatta per tutto il corso
della legislatura. Lo sbilanciamento su pochi paesi, come appunto Francia e Germania, può nuocere alle ambizioni di un «blocco
europeo» delle forze liberali. Prima di tutto perché il successo riscontrato in alcuni paesi si è bilanciato al flop delle
liste liberali in diversi altri, inclusa l’Italia e il totale di deputati (zero) eletti da una sigla come +Europa . Fabio
Franchino, politologo dell’Università di Milano, riconosce al gruppo l’abilità di sottrarre voti a Popolari e socialisti («Sembra
che Macron abbia attinto da entrambi i fronti »), ma mette in guardia dalla sopravvalutazione di un’ascesa «inflazionata»
dai numeri dell’asse franco-inglese. «Ci sono anche un certo numeri di paesi dove l'Alde ha perso parlamentari: Belgio, Croazia,
Bulgaria, Finlandia, Lituania, Olanda» fa notare Franchino. In secondo luogo anche il gruppo più europeista, sulla carta,
deve misurarsi con sensibilità e agende politiche ispirate dai governi nazionali. Richard Youngs, ricercatore al think-tank
Carnegie Europe, fa notare che il gruppo potrebbe frammentarsi tra i vari interessi interni. «Ci sono grosse differenze nel
“blocco liberale” - dice - Il liberalismo in Spagna non è lo stesso che si può trovare nei paesi nordici; Macron e Mark Rutte
(primo ministro olandese, ndr) sono molto diversi».
Margrethe Vestager for president
Un Alde in forze sarebbe comunque decisiva per il sostegno a Margrethe Vestager, candidatura che trova sempre più sponde per
la carica di presidente della Commissione europea. Il calo elettorale di Popolari e Socialisti ha messo in crisi anche il
meccanismo degli spitzenkandidaten, il processo che aveva consentito ai vari gruppi di sponsorizzare un proprio nome per la
guida del braccio esecutivo della Ue. La procedura vuole che siano i capi di Stato, riuniti nel Consiglio europeo, a nominare
una figura e sottoporla poi al vaglio dei Parlamentari. Nel 2014 i Popolari, forti di 216 seggi, erano riusciti a far passare
il proprio candidato Jean-Claude Juncker. La discesa di consensi che si è registrata nel voto del 23-26 maggio rende più difficile
far digerire ai Capi di stato lo spitzenkandidat ufficiale, il bavarese Manfred Weber. Weber, esponente della Csu tedesca,
conta su una lunga carriera nell’Europarlamento ma non può vantare nessun ruolo di rilievo in patria. Vestager aveva già guidato
tre ministeri diversi in Danimarca (affari ecclesiastici e istruzione dal 2000 al 2001, Istruzione dal 2001 al 2007, Economia
dal 2011 al 2014), prima del quinquennio che le ha garantito la maggiore visibilità: quello alla Commissione, con responsabilità
alla Concorrenza. Dal 2014 al 2019, Vestager ha costruito la sua reputazione infliggendo multe miliardarie a colossi tech
statunitensi e mettendosi di traverso a fusioni di grossa entità come quella che avrebbe dovuto finalizzarsi nel ferroviario
fra i tedeschi di Siemens e i francesi di Alstom. In aggiunta, conta su una qualità che Macron ha indicato fra i requisiti
minimi di una nuova Commissione: il carisma, coltivato anche con una buona presenza social e calcando i palchi delle convention
tech europee. Pochi, forse, potrebbero dire lo stesso di Weber. Ancora meno del suo predecessore, Jean-Claude Juncker.
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