(none)

Dossier Salario minimo, ecco come funziona nei Paesi Ue che l’hanno adottato

  • Abbonati
  • Accedi
    Dossier | N. 7 articoli Salario minimo

    Salario minimo, ecco come funziona nei Paesi Ue che l’hanno adottato

    La battaglia dei Cinque stelle per il salario minimo in Italia ha trovato, fin dalle origini, due sponde indirette (e insospettabili) in Europa: la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron. La prima ha invitato a giugno a considerare «forme comparabili» di retribuzione minima nel Continente, parametrate al costo della vita dei singoli mercati. Il secondo aveva invocato nella sua lettera aperta per il «rinascimento dell’Europa» l’equivalente di un salario minimo su scala Ue, sempre da intendersi come argine alle forme di dumping sulle retribuzioni fra i vari paesi europei. La proposta pentastellata di un minimo di 9 euro lordi l’ora ha scatenato l’ennesimo fronte di tensione con la Lega, preoccupata da una misura che potrebbe appesantire il carico fiscale delle imprese. Ma la partita più rilevante si annuncia fuori dai confini nazionali, con un’ipotesi già messa sul tavolo da alcuni gruppi politici a Bruxelles: un testo di legge in favore di un «salario minimo Ue», inteso come l’obbligo di fissare un reddito standard in tutti i 28 paesi europei.

    Se l’Europa è divisa (anche) sui salari
    Ad oggi il minimum wage, il salario minimo, non è stato istituito solo in sei dei 28 paesi Ue: mancano all’appello Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e, appunto, Italia. I valori medi della misura rispecchiano la frattura economica fra «due Europe», anche se la divisione si esprime più nel divario Est-Ovest che in quello ordinario tra Nord e Sud. Una geografia prevedibile, se si considerano l’accusa media mossa ai paesi dell’Europa orientale (e alle imprese che se ne approfittano): l’attrazione di intere imprese o lavoratori distaccati grazie a un costo del lavoro schiacciato ai minimi termini, innescando un processo di concorrenza sleale rispetto alle aziende che operano in paesi con un livello di retribuzioni più elevato. Paradossalmente, però, la formulazione di standard europei sul salario minimo potrebbe finire per giocare a favore anche del blocco dei paesi dell’Est. Il livello basso delle retribuzioni, minime e non, è una delle cause che hanno provocato la carenza cronica di risorse lavorative in paesi come Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria. Mercati dove la paga lorda oraria viaggia a un terzo della media Ue, alimentando l’esodo di risorse verso il resto della Ue che ha svuotato il bacino della forza lavoro nazionale.

    Ma il divario è così imponente? Scorrendo i numeri della Ue, sembra di sì. In nove stati membri, tutti a Est, il reddito minimo oscilla tra i 400 e i 600 euro mensili: Lettonia (430 euro), Romania (446 euro), Ungheria (464 euro), Croazia (506), Repubblica Ceca (519 euro), Slovacchia (520 euro), Polonia (523 euro), Estonia (540 euro) e Lituania (555 euro). All’estremo opposto, nella zona centrale e settentrionale della Ue, l’asticella si alza ai 1.521 euro della Francia, i 1.557 euro della Germania, i 1. 594 euro del Belgio, i 1.616 euro dei Paesi Bassi, i 1.656 euro dell’Irlanda e i 2.071 euro del Lussemburgo. Su scala oraria, per farsi un’idea dello scarto, si oscilla dagli 1,62 euro della Bulgaria ai quasi 12 euro del Lussemburgo. Il divario si ridimensiona aggiustando gli stipendi al costo della vita, ma lo sbilanciamento tra Ovest ed Est resta tangibile. In termini di standard di potere d’acquisto (Pps), un’unità convenzionale per confrontare la capacità di spesa nei vari paesi, il blocco dell’Est viaggia in media sotto gli 800 Pps. È il caso di Bulgaria (577 Pps, il valore più basso su scala europea), Lettonia, Estonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. All’estremo opposto, nel centro e nord d’Europa, il valore medio sale in media ben al di sopra dei 1000 Pps, dai 1.496 Pps della Germania ai 1.645 Pps del Lussemburgo.

    Le proposte politiche a Bruxelles...
    La questione di un salario obbligatorio su scala Ue è finita tra i tanti dossier in ballo per la nuova legislatura a Bruxelles, in genere con un approccio simile a quello sposato da Merkel: una soglia minima di retribuzione calibrata in base alla media degli stipendi in un certo paese. Nell’intenzione dei proponenti, l’obiettivo è quello di aumentare le soglie minime di retribuzione per contrastare le varie forme di dumping salariale che si registrano su scala Ue. Il gruppo dei Socialisti&Democratici, capeggiato dall’aspirante presidente di Commissione, Frans Timmermans lo ha indicato come uno dei suoi obiettivi primari per la nuova legislatura. L’ipotesi, dettagliata dallo stesso Timmermans, è quella di imporre una retribuzione minima pari al 60% del valore «mediano» (al centro della curva distribuzione) di un certo paese. Attualmente la media dei salari minimi si muove su percentuali più bassi, arrivando anche al 40% circa nel caso di Estonia e Repubblica Ceca. Il gruppo Verdi si era spinto oltre, includendo nel proprio manifesto elettorale l’ipotesi di «direttiva sul reddito minimo» sposata a esperimenti di reddito universale e riduzione dell’orario di lavoro. L’ìpotesi trova meno favori sulla sponda destra (e centrale) dell’Eurocamera. Lo spitzenkandidat dei Popolari Manfred Weber non si è espresso a favore della misura, mentre la famiglia dei Conservatori e riformisti è schierata contro qualsiasi tentativo di «centralizzazione» delle politiche economiche a Bruxelles.

    ...e la debolezza della «via italiana» al salario minimo
    Andrea Garnero, economista Ocse audito dalla Commissione Lavoro della Camera sul testo dei Cinque stelle, ha manifestato i suoi scetticismi sulla misura. Non tanto per il progetto di un salario minimo, che andrebbe a colmare il ritardo italiano sull’istituzione di una misura di protezione sociale diffusa omogeneamente nella Ue. Quanto per la sua bozza italiana, viziata da un difetto d’origine: aver fissato la cifra di 9 euro lordi ex novo, senza un processo di valutazione che dovrebbe essere smaltito su un periodo più lungo. Garnero cita il caso del Regno Unito, all’epoca guidato da Tony Blair, dove l’approvazione della legge sul salario minimo (1997) venne seguita da due anni di lavoro prima dell’introduzione effettiva della misura. Più in generale, dice Garnero, «non bisognerebbe caricare il salario minimo di aspettative messianiche e illudersi che possa risolvere la questione salariale in Italia - dice - È un processo che richiede tempo e va tarato bene, non con un intervento a gamba tesa come questo».

    © Riproduzione riservata