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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2011 alle ore 12:35.

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Quando a metà degli anni Novanta il Parlamento approvò la riforma Dini, varata per evitare il collasso del nostro sistema previdenziale, da Bruxelles arrivarono un convinto plauso e diversi attestati di stima. Anche gli interventi adottati negli anni successivi, dalla riforma Maroni alle misure introdotte negli ultimi anni prima da Prodi e Damiano e poi dal Governo Berlusconi, hanno incontrato l'apprezzamento dell'Unione europea.

Giudizi positivi con cui sono stati soprattutto riconosciuti gli sforzi compiuti per puntellare e ridare stabilità a un sistema giunto a un passo dal definitivo collasso sotto la spinta delle baby pensioni e di assegni troppo generosi rispetto agli effetti flussi contributivi. Ma dall'Europa sono arrivati ripetuti moniti sulle anomalie che continuano a caratterizzare il dispositivo che regola le pensioni in Italia. A cominciare dal peso della spesa previdenziale sul Pil, dal perdurante ricorso al pensionamento di anzianità e, soprattutto, dal troppo lento percorso intrapreso per innalzare la soglia di pensionamento.

Non a caso quello italiano viene ormai da anni definito un cantiere aperto. In un momento in cui la Ue e gli altri organismi internazionali premono affinchè in Europa, anche in considerazione degli andamenti demografici, venga alzata l'asticella dell'età pensionabile, l'Italia non può permettersi il lusso di continuare a mostrare il cartello con la scritta «lavori in corso». Guerre politiche sulle pensioni non servono e rischiano di rivelarsi controproducenti non solo per i conti previdenziali, ma soprattutto per il futuro dei nostri giovani. Sulle pensioni occorre una risposta definitiva. Anche perchè la politica dei piccoli passi, degli interventi con andata a regime posticipata come quello dell'ultima manovra sull'età pensionabile delle donne, concorrono solo a generare confusione e incertezza quando invece le prerogative di un efficiente sistema dovrebbero essere l'affidabilità e le certezze soprattuto per garantire le giovani generazioni.

Di fonte ai ripetuti inviti di Bruxelles a tutti gli Stati membri di alzare l'età di pensionamento e alla recente decisione della Germania di far salire la soglia pensionabile a 67 anni, l'Italia non può continuare a mantenere a 60 anni, almeno fino al 2020, l'età di uscita delle lavoratrici privati, a 65 anni quella degli uomini con la possibili di sfruttare ancora a lungo scorciatoia delle «anzianità». Cercare di chiudere, almeno per qualche anno, il cantiere previdenziale consentirebbe di dare un importante segnale in chiave interna ed europea, e anche di avere subito a disposizione preziose risorse che, nel momento in cui si anticipa al 2013 il pareggio di bilancio, potrebbero essere utilizzate per alleggerire il cuneo contributivo-fiscale su lavoratori e imprese. Si potrebbe, in altre parole, centrare il doppio obiettivo rigore-crescita indicato da Bruxelles (e Francoforte) e anche, nelle scorse settimane, dal Governatore Mario Draghi.

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