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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2011 alle ore 11:00.
Incredibilmente si è sentito dire, nel dibattito politico di questi giorni, che per il sistema previdenziale «è arrivato il tempo dei compromessi» (Bossi). Ebbene, è il caso di dire un chiaro e forte no a questa impostazione: non è più il tempo dei compromessi; quel tempo è durato anche troppo ed è ormai ampiamente scaduto.
È invece drammaticamente arrivato il tempo delle scelte nitide, del linguaggio del sì o del no, e non più del «si, ma...» oppure del «cambiamo, ma a partire da dopodomani» che ha caratterizzato troppo a lungo la politica pensionistica del nostro Paese. Sono quasi vent'anni che il sistema previdenziale procede (o non procede) con il compromesso. Abbiamo «il migliore sistema previdenziale d'Europa», asserisce con malriposto orgoglio il ministro dell'Economia Tremonti. Forse sì, ma bisogna spiegare agli italiani che questo sistema, nonostante sia stato disegnato oltre tre lustri fa, è ancora ben lungi dall'essere realizzato; anzi, è ancora "un progetto". Avevamo una casa pericolante (un sistema pensionistico insostenibile), ne abbiamo disegnata una nuova, forse meno confortevole, ma solida e resistente alle intemperie (la riforma del 1995 che ha introdotto il metodo contributivo), però nel frattempo continuiamo a vivere, per paura del nuovo, nella vecchia casa, rattoppata alla bell'e meglio (le mini-riforme che dal 1995 hanno variamente interessato quasi tutti i comparti del sistema), e con alcune "stanze" ancora inopportunamente e quasi grottescamente sontuose (le aree dei privilegiati, troppo poco intaccate dalle riforme).
Il tempo della chiarezza richiede che si dia un segno di discontinuità rispetto al metodo del compromesso e che si faccia piazza pulita di tutta la selva di provvedimenti scarsamente intellegibili e arbitrariamente differenziati degli ultimi anni, con "quote" (somma di età e di anzianità contributiva) diverse a seconda degli anni e degli ambiti di applicazione (lavoro dipendente piuttosto che autonomo); bizantinismi come le "finestre" di ampiezza variabile che inspiegabilmente aggiungono un anno (un anno e mezzo per i lavoratori autonomi) ai requisiti di età/anzianità richiesti il pensionamento; differenziazione dei percorsi per equiparare il trattamento tra le diverse categorie (come l'aumento dell'età di uscita delle lavoratrici del settore privato, incredibilmente stabilito, dalla recente manovra, con inizio nel 2020 e durata decennale!).
Il tempo della chiarezza richiede che la politica e le parti sociali dicano, una volta per tutte, se concordano sul metodo contributivo di calcolo della pensione. Se sì, si accordino per dare attuazione immediata, universale e pro rata a tale metodo, abbandonando ogni indugio, ogni ulteriore compromesso. Se no, ciascuno si assumerà, in modo inequivocabile, le sue responsabilità. Attuazione immediata significa che la partenza deve essere stabilita al 1 gennaio 2012. Universale vuol dire il metodo deve essere applicato a tutti i lavoratori: uomini e donne, lavoratori dipendenti e autonomi, liberi professionisti (che non potranno più farsi scudo della loro autonomia gestionale, dato che quella autonomia comporta rischi di futuri oneri a carico di tutti i contribuenti!) e politici (nazionali e locali, giacché se la formula deve valere per la generalità degli italiani, non si capisce perché non debba valere anche per i loro "vitalizi"). Pro rata significa che il metodo riguarderà soltanto l'anzianità futura, indipendentemente dal numero di anni residui di attività (anche uno soltanto dovrebbe essere conteggiato in base al nuovo metodo). Non è in discussione l'anzianità pregressa e non sono in discussione - anche su questo occorre chiarezza - le pensioni degli attuali pensionati, la stragrande maggioranza dei quali vive con redditi alquanto modesti (per quelle elevate, il governo ha già provveduto stabilendo un contributo straordinario di solidarietà, che nella logica dell'equa ripartizione dei sacrifici potrebbe essere reso meno "straordinario", anche per avvicinare maggiormente queste pensioni privilegiate ai contributi versati dai lavoratori che le percepiscono, in generale ampiamente inadeguati a "pagarle").
Quanto al pensionamento, la fascia di età stabilita nel 1995 (57-65 anni) deve ovviamente essere adeguata all'aumentata aspettativa di vita e anche tenere conto delle maggiori difficoltà finanziarie di oggi, e può quindi essere portata a 63-68 anni. La fascia sarà in seguito automaticamente adeguata, secondo un'altra delle norme introdotte e non ancora in vigore, alle variazione della longevità, cosicché il minimo e il massimo saliranno con l'aumento di quest'ultima.
L'introduzione immediata del metodo contributivo darebbe fin da subito risparmi di spesa stimabili in alcuni miliardi l'anno, riassumendo in sé sia l'aumento dell'età di uscita delle lavoratrici del settore privato, sia il previsto intervento sulle residue pensioni di anzianità; darebbe fin da subito un incentivo importante ai lavoratori a proseguire oltre i 63 anni, mentre toglierebbe alle imprese un facile strumento per disfarsi di manodopera considerata anziana a fini produttivi (ma non tale a fini pensionistici). Soprattutto sanerebbe l'anomalia italiana delle riforme fatte e non attuate, aumentando la credibilità del nostro paese, l'ingrediente del quale i mercati sembrano maggiormente a caccia, in questi giorni. Sarebbe al tempo stesso un atto di coraggio, di lungimiranza e di equità.
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