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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2012 alle ore 18:58.

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Libertà massima, all'interno dei binari offerti dai principi di «ragionevolezza» e «non discriminazione». La disciplina dell'Imu, almeno sulla carta, lascia ai Comuni un amplissimo spazio di manovra sulle aliquote, per individuare trattamenti differenziati e cuciti su misura per le diverse categorie di immobili.

La prima conferma era arrivata con la circolare 3 diffusa dal dipartimento Finanze il 18 maggio, ma nei giorni scorsi il ministero ha fatto ulteriori passi in avanti rispondendo ai quesiti proposti dallo «Sportello Imu» del Sole 24 Ore: tra gli altri esempi, i tecnici dell'Economia aprono alla possibilità di riservare un'aliquota più leggera alle case in affitto utilizzate dal locatario come abitazione principale (senza ovviamente le detrazioni per le abitazioni principali vere e proprie), e non chiudono a priori alle ipotesi di carico fiscale crescente all'aumentare del numero degli immobili posseduti dal proprietario.

Certo, il tutto deve fare i conti con i tagli di bilancio e con l'ostacolo rappresentato dalla quota di imposta destinata allo Stato (si veda l'articolo sotto), ma anche senza ipotizzare improbabili sconti ad ampio raggio, è possibile per i sindaci usare l'autonomia regolamentare per correggere gli errori prodotti da un generalizzato livellamento verso l'alto di tutte le aliquote.

Abitazione principale
Gli interventi sull'abitazione principale sono gli unici che possono influire sull'acconto, perché l'appuntamento di giugno può essere evitato dai proprietari di case che pagherebbero l'imposta secondo le regole standard, ma non secondo la più generosa disciplina locale. Oltre che sull'aliquota, che può scendere fino allo 0,2% (o salire fino allo 0,6%), i Comuni possono alzare la detrazione base (200 euro secondo le regole nazionali), ma non quella ulteriore da 50 euro per ogni figlio fino a 26 anni e convivente. Nessuna norma impedisce ritocchi selettivi alla detrazione, in base alla capacità contributiva dei diversi proprietari, con scelte che però devono passare il vaglio di «ragionevolezza». Sicuramente irrealizzabili, invece, sono le ipotesi di detrazioni maggiorate con criteri diversi come, per esempio, gli anni di residenza nel Comune, perché a impedirli interviene il principio di «non discriminazione».

Gli altri immobili
È soprattutto per gli immobili diversi dall'abitazione principale che si fa pressante l'esigenza di attenuare le sperequazioni create dal debutto della nuova imposta. La regole standard uguali per tutti, infatti, finiscono per ribaltare la gerarchia razionale degli utilizzi descritta dall'Ici.
Per le case sfitte, l'arrivo della nuova imposta non sempre si traduce in un aggravio significativo. Anzi, il tramonto dell'Irpef immobiliare può arrivare addirittura ad alleggerire l'imposta per chi dichiara i redditi più alti. Al contrario, per le case affittate, l'incremento medio è del 90%, e si moltiplica per i canoni concordati nei molti Comuni che fino al 2011 riservavano agevolazioni maggiori a questa tipologia di contratti. Per rimediare, la norma prevede di poter portare fino allo 0,4% l'aliquota per gli immobili non produttivi di redditi fondiari (quindi anche quelli posseduti da soggetti Ires come negozi, uffici e imprese), ma questo significherebbe per il Comune la rinuncia quasi integrale al gettito, perché lo 0,38% va allo Stato.

La norma, comunque, offre in questo modo l'indicazione di graduare le aliquote per le diverse tipologie, e anche sconti ad hoc per i canoni concordati (che limiterebbero il problema, senza azzerarlo), sono consentiti. Impossibile, invece, andare in senso contrario, applicando aliquote più onerose per le tipologie di immobili "favorite" dalle regole nazionali, perché in quel caso la scelta sarebbe in contrasto con la «ragionevolezza» richiesta alle decisioni comunali.

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