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Contratti a termine, rispuntano le «causali»

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l’agenda del governo

Contratti a termine, rispuntano le «causali»

Una prima spallata al Jobs act, con il superamento del decreto Poletti del 2014 che ha “liberalizzato” i contratti a tempo determinato, eliminando la causale, per l’intera durata dei 36 mesi. Accanto all’investimento di 2,1 miliardi di euro sui centri per l’impiego, accompagnato dal restyling dell’attuale sistema di politiche attive introdotto, nel 2015 con la riforma Renzi-Poletti, che fa perno sulla nuova Agenzia, Anpal, che rischierebbe, quindi, di essere “fortemente rivista”, se non chiusa, e sui servizi privati accreditati, che vedrebbero, quanto meno, limitato il proprio raggio d’azione, a favore delle strutture pubbliche.

Partirebbe da questi capitoli la «revisione» della riforma del mercato del lavoro targata Renzi-Poletti allo studio del neo ministro, e leader politico del M5S, Luigi Di Maio. Le proposte tratteggiate, a grandi linee, nel «contratto per il governo» redatto dalla coalizione giallo-verde sarebbero già in corso di approfondimento tecnico (e politico). Anche ieri, del resto, lo stesso Di Maio è tornato a mettere nel mirino il Jobs act, reo, a suo dire, di aver creato troppa precarietà, che pertanto, ora, «va ridotta».

Di qui l’idea di reintrodurre “paletti” sull’utilizzo dei contratti a termine. Il tema è estremamente delicato, specie in una fase economica, come questa, caratterizzata da forti incertezze e da una crescita che stenta a decollare (si ricorderà, nel 2012, ovvero in piena crisi, quando l’allora ministro Elsa Fornero irrigidì il mercato del lavoro, l’unico effetto che produsse fu quello di bloccare le assunzioni). Certo, da marzo 2014 (varo del decreto Poletti) ad aprile 2018 (ultimo dato diffuso nei giorni scorsi dall’Istat) i dipendenti a termine sono cresciuti di 726mila unità, con un picco registrato dal secondo semestre 2017 (in parte questo strumento ha sostituito gli abrogati voucher e le false collaborazioni).

L’ipotesi, su cui si starebbe ragionando, è il ripristino delle “causali”, vale a dire le ragioni giustificatrici del ricorso, da parte del datore, a un contratto a tempo determinato. L’altra strada percorribile, che sembra però perder quota, è quella di un aggravio dei costi per scoraggiare possibili eccessi (già oggi, tuttavia, i contratti a termine sono più cari, dovendo il datore pagare l’addendum dell’1,4% introdotto nel 2012 per finanziare il sussidio di disoccupazione, allora Aspi, ora Naspi).

Una decisione finale su eventuali ritocchi al decreto Poletti non è ancora stata presa; e quindi non si sa se l’intervento troverà (o meno) spazio nell’annunciato “decreto estivo”. O si farà in autunno.

È invece in pole position il cambio di rotta su politiche attive e centri per l’impiego. Ci si muove nel solco del Titolo V della Costituzione, che assegna la materia alla potestà concorrente Stato-Enti territoriali. L’idea è tornare a fissare, a livello centrale, livelli essenziali di prestazioni (sulla falsariga della sanità), lasciando la gestione “sul campo” a Regioni ed ex Province.

La maxi iniezione di 2,1 miliardi sui centri per l’impiego serviranno a tre scopi: formazione del personale; incremento dei servizi di politica attiva; introduzione di standard di qualità delle singole prestazioni da erogare ai disoccupati. A tutto ciò si affiancherebbe il debutto della banca dati unica nazionale che raccoglie tutte le informazioni su misure attive e passive. Oggi la spesa media annua per assistere chi non ha un impiego è circa 200 euro (in Germania, per esempio, si viaggia a 3.200 euro). I centri per l’impiego, inoltre, nonostante il Jobs act, continuano a fornire prestazioni inadeguate in larga parte del Paese (a livello nazionale il placement è intorno al 3%). Una parte del finanziamento aggiuntivo ai centri per l’impiego potrebbe arrivare dalle nuove risorse in campo, da luglio, per il reddito d’inclusione (Rei); fondi che poi verrebbero rimessi e potenziati in legge di Bilancio 2019 (nel disegno M5S-Lega infatti il rafforzamento dei centri per l’impiego è la precondizione per il “reddito di cittadinanza”).

Da segnalare infine il faro acceso pure sull’incentivo per stabilizzare under35, under30 dal 2019, in vigore da gennaio. I dati dei primi mesi dell’anno sono modesti. Di qui il ragionamento del nuovo esecutivo se abbandonare lo strumento per un incentivo strutturale e più forte, sempre nell’ottica di spingere i contratti fissi e ridurre la precarietà. Sul tema è intervenuto ieri anche l’economista Enrico Giovannini, che ha mostrato realismo: «Se c’è una prospettiva di crescita le aziende sono pronte anche a utilizzare gli sgravi - ha detto l’ex ministro del governo Letta -. Se invece a dominare è l’incertezza allora non ci sono incentivi che tengano, e i datori continueranno a preferire i contratti a tempo determinato».

Ecco la squadra dei ministri del governo M5S-Lega

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