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L’azienda vede i messaggi Facebook e licenzia la segretaria infedele

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le prove sui social

L’azienda vede i messaggi Facebook e licenzia la segretaria infedele

Chattare via Facebook sul telefonino aziendale svelando segreti d’impresa costa la perdita del posto di lavoro. E per una dipendente non proprio zelante non c’è privacy che tenga. È successo a Bari, dove il Tribunale (sentenza n. 2636 del 10 giugno scorso) ha prima deciso che il datore di lavoro poteva utilizzare in giudizio gli screenshot dei messaggi privati della signora e - in base al contenuto di questi - ha poi ritenuto legittimo il suo licenziamento. La protagonista è una segretaria che aveva installato sul cellulare aziendale l’applicazione Facebook associata a un profilo personale.

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A casa per malattia, aveva restituito il telefono, sul quale però continuavano ad arrivare messaggi prontamente raccolti dal datore di lavoro. Oltre a intrattenere numerose conversazioni private, infatti, la lavoratrice “infedele” rivelava informazioni e notizie aziendali riservate a imprese concorrenti.

Tutte queste circostanze sono state idonee per il giudice di Bari a integrare la giusta causa di licenziamento. La sentenza ricorda infatti che l’azienda può controllare i propri dipendenti per evitare possibili aggravamenti delle loro condotte. Nel caso qui raccontato la lavoratrice non solo aveva indebitamente installato Fb privato sul telefono aziendale, impiegandolo per conversazioni private durante le ore di lavoro ma, soprattutto, aveva fornito via Facebook nominativi e numeri di telefono di promotori utili alle imprese concorrenti.

La condotta è stata perciò ritenuta di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. A fare la differenza - come detto - gli screenshot della messaggistica Facebook prodotti in udienza dall’azienda e ritenuti utilizzabili dal Tribunale.

Non è la prima volta che la segretezza della corrispondenza dei lavoratori entra nelle pronunce dei giudici, dando vita tuttavia a una giurisprudenza spesso contrastante.

Il datore di lavoro può ad esempio controllare i computer aziendali infettati da virus per motivi di sicurezza. Se nel corso delle verifiche vengono scoperti accessi alla posta elettronica personale e a siti non attinenti all’attività lavorativa, può scattare la contestazione disciplinare. A nulla vale la difesa del lavoratore che presenta ricorso al Garante per la protezione dei dati personali per illecita acquisizione dei dati. Se la finalità è quella della difesa in giudizio il datore di lavoro può produrre i dati acquisiti (si veda la recentissima sentenza della Corte di appello di Roma n. 1331 del 22 marzo 2019).

La questione però non è così pacifica perché mentre il datore di lavoro può controllare la cronologia delle esplorazioni del dipendente non può accedere per finalità disciplinari alla mail personale del lavoratore protetta da password. Lo ha stabilito tre anni fa la Corte di cassazione con la sentenza n. 13057 del 31 marzo 2016, per la quale, inoltre, entrare nella mail del lavoratore per irrogare sanzioni disciplinari può addirittura integrare il reato di accesso abusivo a un sistema informatico.

A cercare di fare chiarezza è intervenuta successivamente la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo che, con la sentenza del 5 settembre 2017, C. 61496/08, ha stabilito che le comunicazioni personali possono essere soggette a limitazioni solo se il lavoratore sia stato preventivamente informato del possibile controllo sulla corrispondenza aziendale, delle modalità e delle ragioni che lo giustificano. In sintesi, il datore di lavoro, in caso di assenza del dipendente può monitorarne le comunicazioni aziendali per garantire ad esempio i contatti con i fornitori. Se in queste circostanze scopre mail che ledono l’azienda può poi produrle in giudizio.

In Italia questo principio è stato ribadito dall’articolo 4 della legge 300/70, così come modificato dall’articolo 23 del Dlgs 81/2015 (conosciuto come Jobs act) che ha eliminato il divieto generale di sorveglianza del dipendente. Nell’interpretazione del ministero del Lavoro e del Garante per la protezione dei dati personali il principio di trasparenza impone però al datore di lavoro di informare i lavoratori sulle modalità di controllo che, dopo l’entrata in vigore del Gdpr, non potrà essere massivo, dovrà essere giustificato da esigenze aziendali e dovrà essere limitato nel tempo.

Questa sentenza di Bari, tuttavia, pare fare un passo in più: il controllo sulla chat privata Fb installata sul cellulare aziendale è infatti avvenuto senza preventiva informazione del lavoratore.

D’altra parte la giurisprudenza ha sdoganato da tempo la possibilità di utilizzare in giudizio chat e messaggi vocali scambiati dal lavoratore su WhatsApp. Si tratta di prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non ne sia il destinatario.

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