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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2011 alle ore 15:45.
L'ultima modifica è del 14 luglio 2011 alle ore 09:36.

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Salvo sorprese (la rivolta nel Pdl del "partito" degli avvocati e dei notai contrari alla liberalizzazione delle professioni è rientrata grazie ai soliti rinvii), domani sera il decreto anti-crisi, riveduto e corretto dal Governo, diventerà legge dello Stato. Sarà così trascorsa una settimana dallo scoppio (venerdì 8 luglio) del caso-Italia sui mercati finanziari cui ha fatto seguito un lunedì nero dove la Borsa ha bruciato in una sola seduta 15,8 miliardi. In una manciata di giorni, l'incubo del default di uno dei Paesi fondatori dell'Europa ha travolto schemi e prassi consolidati, innescando una reazione forte e mirata in tempi rapidissimi. La lezione, se la si comprende per l'oggi e, soprattutto, per l'avvenire, è salutare e istruttiva.

Primo. Ancorché sotto la pressione del vincolo esterno (ricorrente, nella storia italiana) si è dimostrato nei fatti che la politica può muoversi in fretta e con profitto. Incalzate dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, maggioranza e opposizione hanno raggiunto un'intesa ridotta all'osso ma efficace. Ciascuna rimane sulle sue posizioni politiche (la maggioranza vota sì, l'opposizione vota no) ma il decreto passa con una serie di correzioni concordate. La maggioranza e il Governo hanno accettato il confronto nel merito dei provvedimenti, l'opposizione ha rinunciato all'ostruzionismo, il Paese può subito fronteggiare meglio una situazione sui mercati da "codice rosso".

È un risultato che per metodo e tempistica - al netto delle variabili costituite dalle inchieste giudiziarie che coinvolgono pezzi delle istituzioni dello Stato e sulle quali è doveroso sollecitare il massimo della chiarezza - ci allontana dal teatro delle ombre e delle lungaggini cui siamo abituati, riavvicinandoci alle moderne e funzionali democrazie industriali.

Secondo. La manovra che dovrà portare al pareggio di bilancio nel 2014 esce modificata e rafforzata nella sua calendarizzazione. È vero che la stessa Commissione europea aveva approvato un decreto correttivo dei conti pubblici inizialmente più sbilanciato sul biennio 2013-2014, ma è altrettanto un fatto che al suo tormentato apparire sulla scena - come avevamo osservato - erano affiorati evidenti lacune ed errori. Tra le prime, il dato che il decreto conteneva solo una parte (25,3 miliardi su 40) della correzione complessiva, essendo i restanti 14,7 miliardi affidati alle incognite di una legge delega su fisco ed assistenza. Tra i secondi, nel quadro di una manovra per un terzo costituita da nuove entrate, la proposta di una patrimoniale attraverso l'imposta di bollo sui depositi titoli o la revisione del regime fiscale degli ammortamenti che si presentava (1,3 miliardi il gettito atteso) come una vera e propria tassa sugli investimenti privati nelle infrastrutture pubbliche. Il tutto, in un quadro dove la crescita compariva non da protagonista assieme al risanamento ma come un elemento nel complesso periferico, schiacciato dalla prospettiva di nuovo aumento del prelievo fiscale su cittadini ed imprese.

I mercati, già in fibrillazione per il caso Grecia, hanno colto al volo i punti deboli della manovra. È inutile cercare le trame di un complotto sovranazionale. Nella strada che portava verso il pareggio di bilancio figuravano troppe incognite e sono scattate le vendite con i risultati che abbianmo avuto tutti sotto gli occhi venerdì e lunedì scorsi.

Terzo. Abbiamo cominciato a rifiatare dopo gli interventi della Bce e in parallelo con l'evoluzione di un accordo tra maggioranza e opposizione per varare immediatamente un decreto integrato da correzioni sia dal lato del controllo della spesa sia da quello delle misure pro-sviluppo. Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ieri ha confermato questa scelta all'assemblea dell'Abi, dov'era presente anche il Governatore Mario Draghi, presidente designato dalla Bce. Bankitalia ha apprezzato la svolta ma Draghi ha anche avvertito che se non si incide su "altre voci di spesa" il ricorso alla delega fiscale non potrà che tradursi in un aumento delle imposte. Prospettiva da evitare, se davvero si vuole puntare alla crescita.

Quarto. Rigore e sviluppo camminano di pari passo. Ieri sul Sole 24 Ore Roberto Perotti e Luigi Zingales hanno prospettato una manovra ancora più ambiziosa: arrivare subito al pareggio con un progetto da 60 miliardi. Tra le radicali misure previste un nuovo piano per le privatizzazioni (dalla Rai alle aziende municipalizzate), un taglio dei costi della politica per otto miliardi, l'eliminazione delle opere faraoniche e inutili.

Si tratta insomma di riprendere, a tappe forzate, la strada delle riforme colpevolmente smarrite. Programma che almeno in parte torna a riaffacciarsi nel decreto corretto e destinato a diventare leggi domani. Non è un caso che si riapra il capitolo dello sfoltimento del "capitalismo municipale" (gli enti locali sono azionisti di centinaia di società di capitali con un giro d'affari di oltre 50 miliardi) e che riemerga il tema della dismissione del patrimonio immobiliare pubblico (quello cedibile vale circa 400 miliardi). Cosa di cui si era parlato più di un anno fa, in vista di possibili complicazioni sul fronte europeo ed in alternativa ai risorgenti progetti di una tassa patrimoniale.

In un contesto di novità importanti, compreso l'accordo - apprezzato ieri dal Fondo monetario - appena siglato tra Confindustria e sindacati su contratti e rappresentanza al termine di un negoziato-lampo, colpisce il permanente arrocco nella maggioranza di un partito della conservazione contrario alle liberalizzazioni. E più in generale colpisce la resistenza sorda della classe politica a procedere al taglio dei costi della politica stessa, anche al cospetto di confronti con il resto del mondo civilizzato (ieri sintetizzati sul "Wall Street Journal") che lasciano, una volta di più, sgomenti.

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