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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2013 alle ore 14:00.

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Marcello De Vito (Ansa)Marcello De Vito (Ansa)

Lasciamo da parte il voto amministrativo nei tanti centri piccoli e medi dell'Italia profonda. Non perché non sia significativo, ma per la semplice ragione che è troppo frastagliato per autorizzare da solo una lettura politica del risultato. Restiamo a Roma, dal momento che sarà sul voto della Capitale che si concentreranno i commenti del lunedì, alla ricerca di un senso. E non è difficile prevedere che del voto romano si parlerà molto di più dopo, a cose fatte, di quanto non si sia parlato prima.

In realtà occorre fare un notevole sforzo di memoria per ritrovare una campagna altrettanto scialba e incolore, svoltasi in un'indifferenza generale che ha colpito anche l'osservatore più distratto. Eppure si tratta del sindaco di Roma Capitale, per usare la roboante dizione ormai in voga. Il sindaco di Parigi, il "Lord Major" di Londra o il borgomastro di Berlino attirano attenzioni e scatenano passioni. L'elezione di questo o quel candidato non ha il potere di provocare la caduta del governo nazionale, ma certo è uno straordinario termometro della salute politica di quei paesi.

A Roma niente di tutto questo. Sarà interessante, già domani sera, cominciare a fare il conto dell'affluenza alle urne. A giudicare dalla stanchezza che si respira in giro, non ci sarebbe da stupirsi se fosse molto bassa. È come se il disincanto verso la politica nazionale, la scarsa credibilità dei partiti, il livello modesto del dibattito pubblico si fossero riversati su Roma e sugli eterni problemi irrisolti della capitale. Con una differenza: il 24 febbraio chi non credeva nella politica ha votato per i campioni anti-sistema, con i risultati che si misurano oggi. Ma a Roma anche questa carta sembra consunta, o ne arriva solo un'eco lontana.

Il "grillino" di turno, il candidato al Campidoglio De Vito, magari ci sorprenderà tutti al momento dello spoglio: per adesso, tuttavia, sembra nelle retrovie. È arrivato Grillo a Piazza del Popolo, venerdì sera, e ha svolto i soliti numeri del suo repertorio (a proposito: come si spiega che i giornalisti sono ottimi quando attaccano gli avversari del leader e mettono sotto scacco la "casta", ma in un attimo diventano essere abbietti, "pennivendoli" e "servi" non appena esercitano un po' di spirito critico nei confronti dei Cinque Stelle? È indegno il trattamento riservato al commentatore del "Corriere della Sera" Pierluigi Battista, il quale per sua fortuna non era stato candidato alla presidenza della Repubblica. Invece Milena Gabanelli è passata in pochi giorni dall'essere il nome ideale per il Quirinale alla condizione di "nemica del popolo". E tutto per un'inchiesta scomoda).

La verità è che la piazza romana sembra poco adatta agli exploit di Grillo. Un conto è il voto politico, un altro il voto amministrativo. Un conto è la protesta globale e generica, un altro è la scalata al Campidoglio. In questi casi il luogo comune chiama in causa l'antico disincanto dei romani che le hanno viste tutte. Magari ci sarà anche questo, magari i romani vedono più lontano di altri nel valutare i limiti del grillismo. O forse più che altro prevale il realismo della disillusione: una città male amministrata e senza speranze per il futuro che non sia qualche residuo di clientelismo. "Capitale corrotta, nazione infetta" era il titolo di un'inchiesta dell'Espresso, a firma di Manlio Cancogni, a metà degli anni Cinquanta. Vi si denunciava il malaffare e la speculazione già allora dilaganti. A quasi sessant'anni di distanza il malaffare resta, la città sembra morta e la nazione annaspa. Se qualcuno pensa di risvegliare Roma con il voto, scelga bene il candidato.

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