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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2014 alle ore 15:23.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2014 alle ore 14:12.

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Mangaratiba - La gente che protesta per le strade, ma che poi s'incanta davanti alla tv non appena da quello schermo spunta la maglia verdeoro della Seleçao. Contraddizione più evidente e profonda forse non potrebbe esserci, per raccontare, o magari solo provare a immaginare, quello che sarà questo Mondiale, in cui il Brasile degli stereotipi e dei rassicuranti luoghi comuni, tutto samba, futebol e joga bonito, si scontra e collide con l'"altro" Brasile, quello che pure è lì da almeno un decennio e che il mondo non ha voluto però vedere, cioè il Paese - Continente che certo è entrato tra i "brics" della Terra, ma pagando un costo sociale enorme e ancora lontano dall'essere saldato.

In questo scenario, il pallone torna a casa. Sì, perché se è vero che furono gli inglesi a portarcelo, il football, in Sudamerica, sono stati poi loro , brasiliani (insieme a argentini e uruguagi) a sublimarlo, esaltarlo, a farne straordinario melodramma popolare.

E melodramma tutto sudamericano fu il maracanazo, il clamoroso epilogo dei Mondiali 1950, la prima volta che la Coppa del Mondo passò a Rio e dintorni, coi 200mila del Maracanà ammutoliti dai gol di Schiaffino e Ghiggia, che regalarono Il Mondiale all'Uruguay gettando nello sconforto un intero Paese e condannando all'eterno oblio Moacyr Barbosa, il portiere brasiliano che pagò ben oltre le sue colpe.

In un limbo lungo più di un decennio precipitò, da quel Mondiale in poi, anche il nostro calcio: la Nazionale che in Brasile difendeva i due titoli consecutivi vinti nel 1934 e 1938 dai ragazzi di Pozzo, naufragò come quei palloni che a più riprese gli azzurri calciarono in mare dal ponte del transatlantico che li aveva portati dall'Europa al Brasile, via Oceano: troppo recente e grande la tragedia del Grande Torino a Superga per rischiare un volo aereo intercontinentale.

64 anni dopo, sbarchiamo in Brasile col titolo (platonico) di vicecampioni d'Europa e col timone azzurro saldamente nelle mani di Cesare Prandelli. Il cittì ha dato nuovo significato civile a quella maglia che ambisce a far sentire uniti tutti gli Italiani; ma non dimentichiamo che all'estero, oggi, il nostro è soprattutto il calcio di Genny a' Carogna e affini, con gli stadi ostaggio degli ultrà in stretta connessione con le organizzazioni malavitose.

Momento tra i più critici, e quindi,per paradosso,tra i più adatti perché la Nazionale dia il meglio, come accaduto ad esempio nel 1982 (trionfo a un paio d'anni dallo scandalo-scommesse) e nel 2006 (il fiore del Mondiale sbocciato nel fango di Calciopoli. Magari venisse la riedizione di quelle favole calcistiche, ma a patto che serva ad accelerare,non a frenare ancora, un rinnovamento ormai improcrastinabile.

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