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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2014 alle ore 19:45.
L'ultima modifica è del 20 settembre 2014 alle ore 12:54.

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Il presidente francese Francois Hollande non ha perso tempo. Il giorno dopo l'annuncio dell'adesione alla campagna americana per distruggere lo Stato Islamico (Is o Isis) è arrivato il primo raid aereo. L'obiettivo distrutto – un deposito dell'Isis nell'Iraq nordoccidentale - non cambierà le sorti del conflitto ma segna un passo in avanti nella campagna voluta dal presidente americano Barack Obama.

La Francia diventa così il primo alleato della Casa Bianca a colpire lo Stato islamico con la sua aviazione. Da metà agosto i caccia americani hanno compiuto 170 raid. In verità i risultati non sono entusiasmanti. L'Isis ha sì perduto alcune posizioni, per quanto non strategiche, ma controlla ancora un territorio molto vasto a cavallo tra la Siria nordorientale e l'Iraq occidentale.

Nella coalizione internazionale che combatterà l'Isis, che secondo Obama conta già più di 40 paesi, figurano anche diversi altri Partner occidentali. Ma quanti alla fine si accolleranno la responsabilità di bombardare i jihadisti, e farlo per un certo periodo di tempo, sfidando poi le minacce di ritorsioni e rappresaglie?

La sensazione - pensano i vertici del Pentagono – è che la guerra contro lo Stato islamico non si vincerà con i bombardamenti aerei, o almeno non solo con quelli. Sarà indispensabile una robusta aggressione con truppe di terra, pronte a combattere strada per strada nei centri urbani controllati dallo Stato islamico. E qui il divario tecnologico degli armamenti conterrà molto meno. Occorrono dunque truppe addestrate in queste tecniche di guerriglia. Sia in Iraq, sia soprattutto in Siria.

Gli stati Uniti hanno deciso di affidarsi ai peshmerga, le forze della regione autonoma del Kurdistan iracheno, da tempo alleati credibili, all'esercito iracheno - che finora si è dimostrato impreparato - e alle tribù sunnite che, incentivate in qualche modo, decideranno di rivoltarsi contro l'Isis.

Sul fronte siriano i partner che beneficeranno dell'addestramento militare americano saranno le forze del Libero esercito siriano (Fse), vale a dire l'ala più moderata composta da disertori dell'esercito di Bashar Assad, ma certo non la più solida e organizzata nella costellazione delle milizie armate dell'opposizione.

Affidarsi a ognuna di queste fazioni comporta dei rischi e presenta forti incognite. A cominciare dai curdi. Loro sono le forze più efficienti, loro sono gli alleati più credibili di Washington. Tuttavia è presumibile che, se le operazioni per liberare Mosul e le altre città irachene andranno a buon porto, chiederanno delle dolorose contropartite al neo Governo di Baghdad. Come il diritto di vendere per proprio contro il petrolio estratto nel Kurdistan iracheno – greggio che Baghdad considera risorsa nazionale. Ma potrebbero perfino rivendicare l'annessione di Kirkuk, città contesa con ricchissimi giacimenti di greggio che i curdi, davanti alla ritirata delle forze irachene, hanno subito occupato nel timore che l'Isis le conquistasse.

Nell'ipotesi più estrema Erbil potrebbe perfino chiedere l'indipendenza. Tutti e tre questi scenari piacciono poco a Washington. E non solo.

Quanto all'esercito iracheno, dopo l'umiliante disfatta contro l'Isis, occorrerà ricostruirne le strutture e il morale. Per farlo ci vorrà del tempo. Il capo di Stato Maggiore americano Martin Dempsey, favorevole a inviare sul terreno truppe speciali con compiti di addestramento, ritiene che su 50 brigate irachene esaminate attentamente dal Pentagono solo la metà sarebbero pronte per entrare in azione. come partner e potenzialmente leali al governo, e non alle rispettive tribù.

Ricordando poi che sarà decisivo ottenere e il sostegno delle tribù sunnite. Se l'Isis ha conquistate grandi città e aree molto estese in pochi giorni è anche perché ha avuto il supporto logistico di parte della propalazione sunnita che, pur non condividendo i metodi brutali né l'ideologia degli jihadisti, da tempo si era rivoltata contro il Governo dell'ex presidente iracheno Nouri al Maliki, accusato di averla discriminata a favore della comunità sciita. Senza i sunniti iracheni dalla parte della coalizione è improbabile che l'Isis venga sconfitto in modo duraturo. Quanto al libero esercito siriano, qui l'impresa appare ancor più difficile. Ormai controlla solo poche aree della Siria "liberata". E le organizzazioni salafite e jihadiste, avverse all'Isis ma anche al Fse, lotteranno per la supremazia dell'area.

La parte più difficile inizia dunque ora. Strappare agli jihadisti città densamente popolate come Mosul, Falluja, Raqqa. I funzionari del Pentagono sono più inclini di quelli della Casa Bianca ad ammettere che quasi certamente servirà mandare sul terreno le forze speciali per fornire consigli tattici e dare il via ai raid.

L'ammissione di James Clapper, direttore del National Intelligence, l'ente che vigila sul lavoro di tutte le agenzie di intelligence americane, è emblematica. "Abbiamo sottovalutato l'Isis e la sua volontà di combattere. Lo stesso errore che facemmo col Vietnam". La campagna sarà dunque difficile. E lunga.

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