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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2014 alle ore 07:59.
L'ultima modifica è del 01 ottobre 2014 alle ore 09:19.

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Mahamoud, curdo di Suruc, beffa con facilità i check-point dei militari pilotando l'auto sulle piste indecifrabili di una pianura piatta, immensa, interrotta soltanto dalle “tepe”, colline arrotondate che nascondono i siriani in fuga. Ali, 20 anni, sbuca da una curva con aria quasi distratta ma superata una comprensibile diffidenza racconta che è scappato da Talabia dove i jihadisti tagliavano le teste di tutti i giovani di leva: «Ne ho viste otto caricate sul pianale di una furgone». «Hanno decapitato 80 bambini e le loro teste sono state infilate su un camion che ha fatto il giro dei villaggi», sostiene Maydin, un agricoltore arabo di 60 anni che fugge su un camioncino con 12 famigliari senza neppure un goccio d'acqua da bere. Quasi tutti i racconti si somigliano nel descrivere la barbarie delle milizie che con il terrore, anche soltanto annunciato, hanno svuotato città e sgominato le fragili resistenze delle milizie avverse.

Sulla collina spelata di fronte al versante ovest di Kobane, circondata dai jihadisti su tre lati, si arrampica una colonna di carri armati di Ankara, sollevando ondate di polvere che si confondono con le colonne di fumo dei mortai dell'Isis e le nuvole bianche dei lacrimogeni della gendarmeria. Una dimostrazione di forza assai ambigua. I curdi guardano i tank con ostilità: hanno formato una catena umana per protestare contro il governo di Ankara. Bahoz, giovane perhmerga turco del Lago Van, ha gli occhi rossi per i lacrimogeni lanciati dai gendarmi ma non mostra esitazioni: «I curdi siriani sono nostri fratelli e non li abbandoneremo mai. In realtà anche Erdogan vuole che i curdi siano deboli e ha appoggiato i jihadisti per impedire che possiamo fondare il nostro stato».

Riaffiorano così le antiche tensioni tra i curdi e lo stato centrale che con gli islamici dell'Akp al potere aveva avviato una trattativa promettente negoziando con Abdullah Ocalan, leader del Pkk e della guerriglia in carcere a Imrali. Ma pochi dei peshmerga del Pkk rintanati sulla montagna irachena di Qandil hanno abbandonato le armi. E dopo lo scambio di 50 prigionieri jihadisti con 49 ostaggi turchi in mano all'Isis, i curdi hanno cominciato a sospettare che per ottenere la loro liberazione Erdogan avesse “venduto” il destino dei curdi assediati a Kobane.

Esplode una battaglia tra la gendarmeria e i manifestanti che lascia l'amaro in bocca ma sottolinea che i confini della Turchia, 1.300 chilometri dalla Siria all'Iraq, sono una questione geopolitica ribollente mentre le vittorie del Califfato hanno fatto deflagrare le frontiere, ridisegnando la mappa del Medio Oriente.

Lanciato all'interno in un'islamizzazione crescente della società, Erdogan è a una svolta perché fuori rischia di perdere credibilità. Dopo avere propagandato con l'attuale premier Ahmet Davutoglu slogan come “profondità strategica” e “zero problemi con i vicini”, miseramente naufragati nella realtà mediorientale, con l'irruzione del Califfato si trova ad affrontare ai confini problemi che lui stesso ha contribuito a creare permettendo che migliaia di jihadisti varcassero indisturbati le frontiere turche per abbattere il regime di Bashar Assad. Senza contare la “quinta colonna” dell'Isis, dove il 10% dei combattenti sono turchi.

Tramontata l'utopia neo-ottomana e perso il treno per l'Europa, la politica estera di Erdogan ha il fiato corto. «Dopo avere investito sui fondamentalisti in Egitto e sui radicali islamici in Siria, Erdogan deve vendere una nuova posizione della Turchia più credibile nei confonti degli alleati atlantici e americani», dice Nuray Mert, editorialista di Hurriyet. E Kobane, su quella collina dove sferragliano i carri armati davanti alle milizie del Califfato, è il primo severo banco di prova.

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