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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2014 alle ore 07:47.
L'ultima modifica è del 06 ottobre 2014 alle ore 15:07.

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Arin MirkanArin Mirkan

Lunedì 6 ottobre i miliziani dell'Isis hanno issato la bandiera nera dello Stato islamico su una palazzina nella zona orientale di Kobane, la cittadina siriana al confine con la Turchia al centro di una violenta battaglia da settimane. Lo riferiscono i media arabi citando testimoni turchi al confine. Mentre l'Isil entra a Kobane, la Turchia dà il via libera alla creazione di un corridoio umanitario per far arrivare camion carichi di aiuti. Ankara, che secondo il quotidiano filo-governativo Sabah esclude un intervento militare, avrebbe dato il via libera durante un incontro tra il leader del Pyd, Salih Muslim, leader politico della zona curda siriana. In cambio Muslim si sarebbe impegnato a interrompere qualsiasi i dialogo con Bashar Assad e a collaborare con i ribelli del Esercito siriano libero (Esl), il gruppo anti-regime sposorizzato dalla Turchia. L'Isil sta martellando Kobane con missili con gittata di 20 chilometri e i militanti del Pyd combattono strada per strada con vecchi kalashnikov e Rpg anti-carro. Ma dalla Turchia il massimo che arriva agli assediati è un corridoio umanitario per una fuga.

Con il nemico alle porte, la disperazione degli assediati di Kobane dalle milizie del Califfato ha oltrepassato i limiti fino a spingere i curdi al martirio. Possiamo avere più o meno simpatia per la causa curda, intricata e contraddittoria quanto si vuole, ma sui nostri media c'è ancora chi scrive sciocchezze sull'eroismo di questa gente e sugli eventi drammatici in corso al confine turco-siriano, dove sotto gli occhi di un esercito della Nato si sta svolgendo una battaglia feroce e drammatica.

Arin Mirkin, madre di due figli secondo la stampa locale, comandante di un'unità femminile di combattenti, si è fatta esplodere tra i miliziani dell'Isis alla periferia della città diventata simbolo della resistenza al Califfato. La donna, terminate le munizioni, ha sacrificato la sua vita per non finire ostaggio dei miliziani: avrebbe distrutto un mezzo blindato e fatto circa una ventina di vittime tra gli islamici.

A dare la notizia è stato Rami Abdel Rahman, direttore dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, secondo il quale «l'azione ha causato morti ma non ci sono ancora conferme sul numero esatto». Rahman ha precisato che è il primo caso di una combattente donna curda che si fa saltare in aria in un'azione suicida contro lo Stato Islamico. Una decisione presa in conseguenza di una missione militare destinata al fallimento e per evitare la cattura: non è stato certamente un attentato kamikaze su modello di quelli portati a termine da Al Qaeda o dai Talebani in Afghanistan.

Arin Mirkin è solo l'ultima delle molte curde che scelgono la via delle armi per salvare il loro popolo: così determinate che gli jihadisti, per seminare il terrore, hanno postato su Internet le loro foto sorridenti mentre tengono in pugno le teste decapitate di queste donne indomite. Un caso di suicidio recente_ ma non di attentato kamikaze _ risale ai primi di ottobre, quando un'altra giovane guerriera, Ceylan Ozalp, di appena 19 anni, si era tolta la vita sparandosi per evitare di essere catturata dai miliziani dell'Isil che la circondavano. Era invece il 12 settembre, una ventina di giorni fa, quando sulle montagne del Kurdistan iracheno moriva combattendo Avesta, 24 anni, capo di un'unità di uomini e donne impegnata in un'operazione congiunta Pkk-peshmerga per la riconquista di un villaggio vicino a Makhmur. Sarebbe stata colpita al collo da un proiettile sparato da un miliziano e nonostante il tentativo di trasportarla in ospedale non ce l'ha fatta.

Kobane sta per cadere in mano al Califfato sotto lo sguardo dei militari turchi schierati con i carri armati M60 Patton sulla collina davanti alla città: la linea fronte non è lontana, Kobane è soltanto a mezzo chilometro in mezzo alla pianura. Ma sono cinquecento metri drammatici: attraversarli significa entrare in guerra, superando ostacoli politici insormontabili e diffidenze radicate. I governi turchi e il Pkk curdo, nella lista nera delle formazioni terroristiche, si sono scontrati per oltre trent'anni tra azioni di guerriglia e attentati mentre il processo di pace tra Erdogan e il Pkk, avviato tempo fa, è stato congelato. A dozzine i curdi, provenienti da ogni parte della Turchia, varcano il confine per andare in aiuto ai fratelli siriani ma non sembrano armati in maniera adeguata. Secondo un responsabile curdo i jihadisti sarebbero arrivati a un solo chilometro dalla città. Idris Nahsen ha invocato un aiuto concreto. «I raid aerei - ha detto Nahsen - non sono sufficienti a battere i terroristi sul terreno. La coalizione internazionale ci deve aiutare con armi e munizioni».

Il presidente turco Tayyep Erdogan diffida dei curdi siriani alleati del Pkk di Abdullah Ocalan di ispirazione laica e marxista: «I combattenti curdi - ha dichiarato - sono uguali ai miliziani dell'Isis», anche se ieri ad Ankara i capi dei curdi siriani hanno avuto colloqui con i turchi proprio sulla crisi di Kobane che lasciano intravedere qualche sviluppo.
La Turchia, in cambio del suo aiuto, chiede ai curdi di Rojava - così è chiamato il Nord della Siria - di rinunciare a pretese di autonomia o irridentiste, simili a quelle del Pkk, e intende spingerli a schierarsi sotto l'ombrello delle Free Syrian Army, un fronte dell'opposizione manovrato da Ankara e dalle monarchie Golfo, che finora si è dimostrato fallimentare nella sua strategia anti-Assad e ha subito pesanti sconfitte a opera del Califfato. Erdogan ha appena ricevuto le scuse del vicepresidente americano Joe Biden, secondo il quale il leader turco in una conversazione con i vertici Usa avrebbe ammesso l'errore di avere fatto passare migliaia di jihadisti dal suo confine. «Per noi erano solo turisti», ha replicato Erdogan inferocito. Le accuse erano rivolte anche a Emirati e Arabia Saudita nel ruolo di finanziatori, e anche con questi due alleati di Washington Biden ha dovuto presentare le scuse.

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