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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2014 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 14 ottobre 2014 alle ore 07:57.

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Monrovia, capitale della Liberia, gennaio 2015. Nel centro città le saracinesche sono serrate, le strade deserte, i ristoranti vuoti. All'aeroporto nessun volo in arrivo da Europa e Stati Uniti.
È uno scenario ipotetico, ma non per questo irreale. Aggressivo, in molti casi letale, il virus dell'Ebola ha già ucciso più di 4mila persone. Eppure non è la sola minaccia. Lo è, e forse in misura maggiore, anche la paura del contagio. Quella sensazione di panico che si insinua tra la popolazione, spingendo la gente a barricarsi in casa, a guardare con diffidenza chiunque si avvicini.

"Fear factor", gli esperti lo chiamano così. Perché il "fattore paura" rischia di provocare danni maggiori rispetto a quelli diretti, e già gravissimi, provocati dal virus. Sanno che la paura è un morbo altrettanto letale, capace di intaccare anche il sistema immunitario delle economie ben più forti e resistenti. È già accaduto nel 2002-2003, durante l'epidemia di Sars. In un anno il bilancio fu drammatico: 50 miliardi i danni all'economia mondiale, 8mila le persone contagiate, meno di 800 quelle decedute. Questa volta la paura è più grande. Non solo perché il virus ha un tasso di letalità molto più alto, ma anche perché l'epicentro dell'epidemia si trova in Paesi poveri, incapaci da soli di arginare la diffusione del virus.

È difficile prevedere l'impatto che Ebola avrà sulle economie dei Paesi coinvolti. Ancora di più stimare gli effetti su quelle degli altri Paesi africani. Cercare di capire oggi come reagirà l'economia dei Paesi industrializzati è quasi un esercizio statistico. Di reale c'è solo la preoccupazione, legittima. La Banca mondiale ha provato a tracciare due scenari. Il primo, prudente, è il "Low Ebola". In questo ipotetico scenario i Paesi colpiti maggiormente dal virus (Sierra Leone, Liberia e Guinea) riusciranno a contenere la diffusione della malattia. Collaborando e comunicando le informazioni, il virus potrebbe fermarsi a circa 20mila vittime. In questo caso il danno al Prodotto interno lordo dei tre Paesi colpiti (dove vivono in tutto 20 milioni di persone) sarebbe di 3,8 miliardi di dollari entro il 2015. Sarebbe in ogni caso un colpo molto duro soprattutto in Liberia e Sierra Leone. Perché sono entrambi Paesi molto poveri, straziati negli anni 90 da una guerra durata 10 anni. Avevano appena iniziato a risollevarsi, iniziando a raccogliere i frutti del loro ricco sottosuolo, ed ecco che arriva il flagello di Ebola. Un danno ingente colpirebbe anche la Guinea, il secondo produttore al mondo di bauxite, dotato anche di grandi riserve di ferro, oro e diamanti.

Ma la velocità con cui il virus si sta diffondendo suggerisce che prendere in considerazione il secondo scenario - l'High Ebola - non significa indulgere al pessimismo. Le parole pronunciate da David Nabarro, l'inviato dell'Onu per Ebola, fanno riflettere: «La diffusione di Ebola è molto rapida, e i casi raddoppiano ogni 3-4 settimane. Il virus non colpisce più solo una zona definita, ma tutta la regione, e la minaccia riguarda tutto il mondo». Se si avverasse lo scenario High Ebola, che prevede la diffusione del virus anche nei Paesi vicini, come Nigeria, Costa d'Avorio e Ghana, il danno economico sarebbe di 32,5 miliardi di dollari entro il 2015, 7,4 nel 2014, e almeno 25 nel 2015, l'equivalente del 3,3% del Pil regionale.

È la Nigeria a far paura. Il suo sistema sanitario è decisamente migliore rispetto a quello dei tre Paesi colpiti e si è mossa con prontezza e successo per arginare l'epidemia (solo 8 decessi). Con 170 milioni di persone, da quest'anno la prima economia del Continente, il Paese resta però un gigante con i piedi di argilla. Poco più vicino c'è il dinamico Ghana, (+25% del Pil nel 2011). Anche la Costa d'Avorio, il regno del cacao, accuserebbe un duro colpo. Insomma il Golfo di Guinea, la regione ricca di greggio e gas su cui l'Occidente puntava per affrancarsi in parte dalla dipendenza energetica del turbolento Medio Oriente, potrebbe, nello scenario peggiore, precipitare nel tunnel della paura. E in questo caso gli scambi commerciali con i Paesi industrializzati (Usa, Europa, ma soprattutto la Cina) ne risentirebbero.

Già diverse compagnie occidentali hanno ridotto, se non chiuso, le attività in Guinea, Liberia e Sierra Leone. Il numero dei voli programmati in questi tre Paesi è crollato. British Airways, Air France, Kenya Airways hanno sospeso i voli in Liberia e Sierra Leone. La prima vittima è stato il turismo. Ma anche il settore minerario è in difficoltà. Le operazioni in Liberia della mineraria China Union sono ferme. In Guinea il gigante Rio Tinto ha adottato misure severe di protezione, la mineraria Vale ha ridotto il personale straniero. Sui mercati comincia ad affiorare il "fear factor". Alcuni giorni fa, a Londra, il titolo della piccola London Mining, che gestisce una miniera di ferro in Sierra Leone, è crollato del 77%. La paura si sta diffondendo. Forse più rapidamente del virus.

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