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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2014 alle ore 07:46.
L'ultima modifica è del 25 ottobre 2014 alle ore 10:25.

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Da sei mesi Clara si sveglia la mattina con la faccia stanca. Non vede un sabato o una domenica non sa più da quanto. Ma continua ad andare avanti. «Sogno di riposarmi, prima o poi succederà». Ogni giorno, ogni santo giorno, da quando in Sierra Leone è scoppiata l’epidemia di Ebola lei, assieme a una trentina di collaboratori - medici e personale paramedico - di cui coordina il lavoro, lotta contro questa bruttissima bestia, nel cuore dove questo virus è scoppiato seminando morte, pianti e dolore. La regione è quella del Pujehun, 320 mila abitanti, nel sud del Paese al confine con la Liberia, distretto rurale di villaggi e di persone con gli occhi puliti che si nascondono in casa se scoprono di avere il male oscuro che porta alla morte. Una morte tremenda, con febbri alte, emorragie e sangue che perdi da tutte le parti: occhi, bocca e pelle che si trasforma in un pallone bucato.

Clara Frasson, classe 1957, da Padova, le borse sotto agli occhi scavate dalla fatica, i lineamenti gentili sui capelli chiari che tradiscono la sua origine occidentale, non ha scelto lei di lottare contro Ebola. Ci si è trovata. Ma ha deciso di restare. Di non scappare. E di provare, ogni mattina, a dare aiuto ai malati di Ebola, per far sì che la malattia e tutte le paure che si porta dietro con sé possa essere battuta dalla medicina. «Ci riusciremo, lo so, la situazione sta lentamente migliorando». È una di quelle persone - non capita spesso - che ti fa sentire fiero di essere italiano. Un eroe civile che lavora per fare andare meglio le cose, come se fosse la cosa più normale del mondo. Lontano mille miglia dai riflettori dei media e dal clamore vacuo dei talk show. Rischiando in prima persona la sua vita ogni giorno.

Dopo diversi tentativi andati a vuoto - «... Il telefono non prende in questa zona». «Sto visitando delle persone, ora non posso» - finalmente si fa contattare al telefono, alla fine della solita giornata infinita.

Doppia vita tra Italia e Africa
Per anni Clara ha condotto una doppia vita, tra Italia e Africa. Lavorava in ospedale a Padova. Ogni tanto partiva con l’aspettativa. Zone di guerra. «Ho fatto 4 anni in Mozambico e 4 anni in Angola, durante le guerre civili». Lavoro di emergenza in sala operatoria, feriti da arma da fuoco, amputazione di arti delle persone che saltavano sulle mine. Sempre in prima linea… «Perché ho scelto l’Africa? Non so, mio padre era stato in Etiopia a costruire strade e mi raccontava sempre dell'Africa e della sua gente. Forse è nato da là questo mio amore. Fin da ragazzina ho scelto questo lavoro per lavorare nel Sud del mondo». I periodi di aspettativa sono diventati via via più lunghi. «Ho fatto la doppia vita per dieci anni. Tornavo in Italia e facevo fatica a rimanere. Mi trovavo spaesata in ospedale a Padova, riprendevo a lavorare sempre con grosse difficoltà. Ritornare è sempre difficile».

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