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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2014 alle ore 13:58.
L'ultima modifica è del 11 novembre 2014 alle ore 09:01.

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Abu Bakr al-Baghdadi (Epa)Abu Bakr al-Baghdadi (Epa)

È vivo ma ferito; no, è già morto: la sorte di Abu Bakr al Baghdadi, il califfo Ibrahim dello Stato Islamico (Isil) è un giallo, con dichiarazioni contrastanti tra americani e iracheni. Il ministero degli esteri iracheno ha smentito la dichiarazione comparsa su Twitter e attribuita al titolare del dicastero, Ibrahim al Jaafari, riguardante la presunta uccisione di Abu Bakr al Baghdadi, leader dello Stato islamico (Isis), ha detto un portavoce del ministero contattato telefonicamente dall'Ansa.

Ma la vicenda comunque sta riportando l'attenzione internazionale sulla campagna aerea della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Siamo davvero a una svolta del conflitto contro lo Stato Islamico?

Due gli interrogativi principali. Il Califfo Baghdadi ha un successore e in che modo la sua morte o la sua uscita di scena potrebbe influire sulle azioni militari dello Stato islamico? Chi sta vincendo questa guerra dopo la decisione di Obama di rafforzare la presenza militare sul campo?

La macchina propagandistica del Califfato, forse ancora più efficace dell sue truppe, si è mobilitata. «Se pensate che il Califfato finisca con il martirio del Califfo vi sbagliate di grosso», ha annunciato con un twitter in arabo Abu Muhammada al Adani, portavoce siriano dell'organizzazione che era stato dato per morto anche lui e fa parte della direzione strategica. Suo un discorso ormai famoso in cui spronava gli islamici a uccidere gli infedeli in qualunque modo, anche “investendoli con l'auto”.

La realtà è che l'organigramma del Califfato ai vertici è avvolto nel mistero. Il vice di Baghdadi viene indicato in Abu Muslim al Turkmani, che secondo gli iracheni sarebbe rimasto ucciso proprio nell'ultimo raid. Baghdadi capeggia una struttura con un gabinetto costituito da sette membri da cui dipendono i governatori locali: il Califfato ha un'estensione otto volte il Belgio con una popolazione tra gli otto e i dieci milioni di persone, che va dalla periferia della città siriana di Aleppo fino alla provincia intorno alla capitale irachena Baghdad. Dal Califfo dipende anche l'Ufficio di Guerra, composto da almeno tre membri: si occupa delle operazioni militari e di quelle del sostegno logistico alle truppe.

Dei vertici abbiano i nomi e le biografie - è presente anche qualche importante generale iracheno di Saddam Hussein - ma non è detto che sia tra questi il possibile successore.
La questione è politica, militare ma anche religiosa e internazionale: il Califfo è propriamente il vicario del Profeta che deve assicurare l'unità politica di musulmani a prescindere dalle differenze nazionali. Il ripristino della funzione del Califfato, abolito in Turchia nel 1924 da Kemal Ataturk, è al centro del progetto politico dell'Isil, un movimento multinazionale e composito sotto il profilo etnico e della provenienza dei militanti anche se dominato ai vertici dai sunniti mediorientali. È questo progetto radicale di restaurazione che ha attirato i combattenti e suscita ancora numerose adesioni nel mondo musulmano: l'ultima è quella del gruppo jihadista egiziano Ansar Beit Al Maqdis, i partigiani di Gerusalemme, che ha appena giurato fedeltà al Califfo.

Un aspetto è comunque assai interessante: mentre i predecessori di Al Baghdadi, compreso Abu Musab Zarqawi, capo di Al Qaeda in Iraq, guidavano un'organizzazione fortemente centralizzata, la nuova leadership jihadista si è scelta dei vice, dei comandanti, dei capi delle amministrazioni locali e conta su un apparato ben più articolato e sofisticato.
Se questa è la struttura complessa dello Stato Islamico, è logico immaginare che sia stato previsto uno scenario in cui il capo supremo viene ucciso. Probabile che sia stato individuato un “comitato di crisi” per designare un eventuale successore e studiare le mosse necessarie alla sopravvivenza di un'organizzazione che se venisse sconfitta non ha troppe alternative o vie di uscita.

Ma chi sta vincendo questa guerra? I raid aerei americani e il rafforzamento delle milizie, sia curde che sciite, ha cominciato a produrre i primi effetti. La questione però è molto più complicata di quanto appare. Contano diversi fattori: i fallimenti della strategia americana in Iraq, la debolezza dell'esercito iracheno che ha spinto Obama a mandare altri 1.500 uomini (in tutto sono 3mila) per assistere le truppe di Baghdad, la situazione in Siria, molto diversa da quella irachena.

Si può dire che l'avanzata del Califfato sia stata “frenata” ma parlare di sconfitta è ancora prematuro. In Iraq sarà decisivo l'atteggiamento delle tribù sunnite, dove gli americani stanno tentando di mobilitarle contro i jihadisti come fece a suo tempo il generale Petraeus durante la “surge”, la controffensiva contro al Qaeda. Ma in Siria la vicenda è assai più complessa è non può sfuggire a un accordo con il regime di Bashar Assad che in questo momento sembra il maggiore beneficiario della guerra al Califfato, insieme ai gruppi jihadisti concorrenti dello Stato Islamico. Ma la “vera guerra” per definire le nuove frontiere del Medio Oriente deve ancora cominciare.

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