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Questo articolo è stato pubblicato il 21 novembre 2014 alle ore 11:45.
L'ultima modifica è del 21 novembre 2014 alle ore 16:20.

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La sentenza Eternit rivela due paradossi: quello di una politica colpevolmente latitante sul fronte della prescrizione, che però non rinuncia a cavalcare un dolore collettivo per continuare a promettere quanto finora non ha saputo/voluto mantenere; quello di una magistratura che reclama nuove norme sulla prescrizione ma, in assenza di una sponda normativa, rinuncia alla legittima duttilità interpretativa della propria funzione anche se ciò confligge con il senso di giustizia imposto dall'esercizio della funzione stessa.
Suonano come una beffa le parole di Matteo Renzi a poche ore dalla sentenza Eternit: «Non ci può essere l'incubo della prescrizione. Bisogna cambiare le regole del gioco». Parole sante, se non fossero pronunciate dal capo di un governo che da aprile annuncia la riforma della prescrizione, che l'ha approvata solo il 29 agosto, ma che ancora non ha fatto pervenire al Parlamento la sua proposta (pur continuando a parlarne come cosa già fatta), con il solo risultato di aver rallentato i lavori parlamentari in corso da maggio. Oggi Renzi sembra svegliarsi da un lungo torpore e accorgersi di quanto sia micidiale la normativa vigente e urgente modificarla. Parlare di prescrizione, oggi, è “popolare” e il premier cavalca il sentimento popolare nel solco della peggiore tradizione politica, quella che si accorge (o finge di accorgersi) dei problemi della giustizia solo di fronte alle (presunte) emergenze o a casi eclatanti che scuotono l'opinione pubblica, salvo dimenticarsene nel giro di poco tempo.

Di riforma della prescrizione (i cui termini erano stati dimezzati nel 2005 con la legge ex Cirielli) si è ricominciato a parlare fin dall'uscita di scena di Silvio Berlusconi, con i governi Monti, Letta e Renzi. Parole. Il dibattito politico non è mai decollato; al più ricomincia da zero, come se il terreno non sia mai stato arato in ogni sede, giudiziaria, scientifica, istituzionale. Inutili le sollecitazioni di Europa e Ocse, scomodate per cambiare il reato di concussione, sebbene fosse l'ultima delle preoccupazioni nella lotta alla corruzione, ma pervicacemente ignorate sulla prescrizione, considerata invece da sempre la «priorità» per rendere efficace quella lotta. Ignorati anche i vertici della Cassazione (Ernesto Lupo e Giorgio Santacroce) e la loro richiesta ai governi di turno di farsi carico della specificità di alcuni reati che spesso vengono scoperti soltanto dopo anni da quando sono stati commessi, sicché buona parte della prescrizione si è già consumata. È il caso dei reati contro la pubblica amministrazione ma anche di altri, compreso il «disastro ambientale» contestato nel processo Eternit: proprio sul momento della sua consumazione si sono divisi i giudici di appello e della Cassazione. Così quel processo va ad aggiungersi ai 113mila fulminati dalla prescrizione. Di questo il governo dovrebbe farsi carico, riformando la prescrizione all'insegna della flessibilità, come in Europa. E senza tirare in ballo la lunghezza dei processi. Il caso Eternit dimostra che non c'entra niente, perché i processi sono stati celebrati con rapidità esemplare considerata la mole e il numero delle parti civili (6000). Snellire il processo è cosa buona e giusta ma richiede tempi lunghi mentre la riforma della prescrizione può viaggiare autonomamente e rapidamente. Invece di continuare con gli annunci, quindi, il governo presenti subito il suo ddl o lasci che il Parlamento vada avanti, intervenendo con le sue proposte strada facendo, in modo costruttivo.

Ma se le norme vigenti non sembrano coerenti al senso di giustizia, altrettanto deve dirsi della sentenza della Cassazione. Che ha ribaltato l'interpretazione dei giudici di merito sul momento consumativo del reato di «disastro ambientale», anticipandolo alla data di fallimento dell'azienda (mentre gli altri giudici lo hanno stabilito con riferimento alle morti da amianto). Era la prima volta che si affrontava questo tema rispetto a un reato che è silente e progressivo. E la Cassazione forse aveva i margini interpretativi per non dichiarare la prescrizione. Ieri, sulle colonne della Stampa, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato una sentenza della Cassazione francese del 7 novembre, che, modificando l'interpretazione prevalente, ha stabilito un principio innovativo per evitare la prescrizione di un orrendo omicidio rimasto nascosto per anni, e cioè che i termini decorrono da quando il magistrato ne ha notizia. La Corte ha usato fino in fondo il suo potere interpretativo per dare una risposta di giustizia, nel rispetto del diritto. La legge francese prevede termini di prescrizione molto brevi (che decorrono da quando il reato è commesso) compensati, però, da un sistema di interruzioni molto elastico, per cui a ogni atto dell'autorità giudiziaria la prescrizione riparte da zero. Ciò nonostante, ci sono casi in cui il reato si scopre dopo talmente tanti anni che la giustizia ha le mani legate. Ebbene, secondo la Corte la prescrizione è sospesa allorquando un «ostacolo insormontabile» rende impossibile che il giudice proceda. Peraltro, nel 2004 sempre la Cassazione francese aveva stabilito che per alcuni delitti (abus des biens sociaux, abus de confiance eccetera) il termine decorre da quando la condotta è stata accertata, quindi anche a molta distanza dalla commissione del reato. Non è giurisprudenza creativa e tanto meno eversiva. Ma un esempio di come, nel rispetto del diritto, il giudice possa rispondere all'esigenza di giustizia che la sua funzione gli impone. Nonostante la latitanza della politica su temi delicati e l'aria che tira contro i magistrati.

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