L'incubo di un califfato islamico alle porte dell'Europa, separato da un braccio di mare. Quattro mesi fa a Derna, turbolenta cittadina della regione orientale della Cirenaica, gruppi jihadisti avevano annunciato la creazione di un Califfato proclamando la loro alleanza ad Abu Bakr al-Baghdadi e sventolando le bandiere nere dell'Isis. Un piccolo regno del terrore, dunque, davanti alle coste greche e italiane, certo non esteso quanto il fratello maggiore in Siria e Iraq, ma altrettanto spietato e crudele. Per tutti questi quattro mesi sembrava quasi che l'imbarazzante silenzio – e l'inazione - della Comunità internazionale, si spiegassero con l'illusione che la presenza dell'Isis nell'ex regno di Muammar Gheddafi potesse essere confinata a Derna e dintorni. Un errore fatale. Mese dopo mese le cellule jihadiste hanno guadagnato terreno. Se davvero dovesse essere confermata la responsabilità, anche indiretta, di gruppi legati all'Isis nell'attentato di oggi a Tripoli, si tratterebbe di una gravissima escalation che mette in luce la drammatica ascesa dei gruppi jihadisti in Libia. Il fatto che sia attaccata la capitale Tripoli, e che venga assaltato con facilità l'albergo più rappresentativo e protetto, l'Hotel Corinthia - luogo d'elezione per ospitare le delegazioni straniere - getta ombre inquietanti sulla sicurezza di tutto il Paese e sulla l'impotenza dell'autorità libiche, sia quelle più laiche sia quelle più islamiche, di contenere la minaccia terroristica.
L'ultimo , accorato appello per fermare la deriva estremista era arrivato sabato mattina da Ali Tarhouni, 63 anni, ex ministro delle Finanze e del petrolio nel Consiglio nazionale di transizione e, dall'aprile 2014, presidente dell'Assemblea costituente della Libia, deputata a elaborare la nuova Costituzione. «I guerriglieri dell'Isis si sono insediati nella regione di Bengasi», aveva avvisato, aggiungendo che la loro marcia era continuata verso ovest, nella zona di Sirte e quindi di Misurata, fino a poco tempo fa un vitale centro di commerci e di affari anche per gli stranieri. Infine, scavalcata la capitale Tripoli, truppe di jihadisti avrebbero occupato Sabrata, poi l'importante porto di Zawiyah fino a Zuara, piccolo porticciolo di pescatori, da cui partono quasi tutte le imbarcazioni di migranti diretti a Lampedusa, la Sicilia e Malta. Forse Tarhouni ha calcato la mano nel tentativo di scuotere l'apatia delle diplomazie occidentali. Ma le immagini di gruppi armati che, nei giorni scorsi, sventolavano bandiere dello Stato Islamico a Zawiya rendono più credibile il suo allarme. Se anche il piccolo porto di Zuara fosse controllato dai jihadisti il pericolo che nascondono i loro uomini tra la massa dei disperati in fuga per l'Europa sarebbe reale.
La Libia è ormai in balia del caos, spaccata in due, se non di più. Dallo scorso agosto una coalizione di milizie islamiche – al-Fajar - ha conquistato Tripoli, creando un Governo ombra che compete con quello “esiliato” a Tobruk, ai confini con l'Egitto, “laico” e riconosciuto dalla Comunità internazionale. Due sono dunque i Governi, due i Parlamenti e perfino due ministri del petrolio, che pretendono di essere i solo rappresentanti del settore energetico nazionale, tanto strategico quanto in difficoltà. Sono due anche gli “eserciti”, che ormai si fronteggiano sempre più spesso. In Libia si è dunque creato un vuoto di potere, un terreno fertile per l'ascesa dei gruppi jihadsiti che aspirano a emulare le gesta del Califfato islamico.
In verità i prodromi del nuovo Califfato che si affaccia sull'Europa si erano già manifestati da tempo. Derna non era più la Libia da almeno un anno. Nelle elezioni parlamentari di giugno i seggi erano rimasti chiusi. Già in estate si parlava di una decina di campi di addestramento per jihadisti nei dintorni di Derna. Voci confermate poi a fine anno dai servizi di intelligence libici e americani.
Oggi non si può più voltare la testa. In Libia la situazione sta precipitando. Siamo ormai prossimi a punto di non ritorno; una guerra civile aperta davanti all'Italia, con un potenziale esodo di massa di migranti e disperati
Davanti ai crescenti scontri tra la fazione islamica di Tripoli e quella più laica di Tobruk, e davanti al rafforzamento del jihadismo che ha approfittato di questo conflitto, l'Europa non sembra più disposta a restare indifferente. In verità il Governo italiano ha spesso – e da parecchio tempo- cercato di attirare l'attenzione di Bruxelles su questa gravissima crisi. Da ieri i belligeranti sono ritornati a Ginevra al tavolo dei negoziati per cercare di trovare un accordo e far tacere le armi. Tra i 17 rappresentanti di diversi gruppi ci saranno anche quelli delle milizie islamiche di Misurata. Il fatto che anche non ci siano esponenti non dei gruppi armati di Alba libica (Fajir), già assenti ai primi colloqui del 14-15 gennaio, non è una buona notizia. Se fallissero le trattative si sta valutando l'opzione di un intervento di peacekeeping in cui l'Italia sarebbe disposta a partecipare. Una missione scomoda, con molti rischi, dall'esito incerto. Ma l'accorato appello di Tarhouni, precipitatosi la scorsa settimana a Davos per essere udito, non va ignorato: «L'Europa, soprattutto l'Europa, sottovaluta i rischi della situazione libica – aveva detto - . I pericoli crescono drammaticamente. Il Paese è polverizzato, con le città, persino i villaggi che non rispondono più a nessuno. L'assemblea costituente è forse l'ultima possibilità per salvare la Libia».
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