
«Ai primi di maggio la legge elettorale deve essere approvata in via definitiva alla Camera e questa discussione deve essere chiusa». Matteo Renzi, come nelle previsioni, convoca la direzione del Pd («l'ultima - sottolinea - su questo argomento») e chiede il voto del partito per andare avanti sull'Italicum 2.0 senza ulteriori modifiche. Quello del premier e segretario del Pd è un discorso schietto, come non gli capitava da tempo. Un esercizio di leadership e un aut aut di fatto nei confronti della minoranza del Pd, che sulla strada delle riforme istituzionali e della legge elettorale è l'unica opposizione di fatto rimasta in Parlamento.
L'approvazione di una nuova legge elettorale che dia certezza del vincitore come è l'Italicum - argomenta - è lo snodo politico della legislatura e un'impasse su questo punto significherebbe una inaccettabile perdita di credibilità per il governo e per il partito proprio in un momento in cui l'economia comincia a dare i primi segni di ripresa e di fiducia. Chiaro che un fallimento sull'Italicum, magari con il giochetto dei voti segreti previsti dal regolamento di Montecitorio come qualcuno della minoranza sembra minacciare, significherebbe la fine del Renzi 1 e l'apertura del baratro.
La minoranza del Pd, che con l'ex leader Pier Luigi Bersani ha via via alzato i toni fino a fare della battaglia contro i capilista bloccati la madre di tutte le battaglie, non può che prendere atto della sfida lanciata da Renzi e con la decisione di non votare - piuttosto che votare contro - conferma la debolezza della sua posizione politica. Il tentativo neanche troppo celato del premier di separare i “giovani” più dialoganti come il capogruppo Roberto Speranza e i ministri del suo governo dai “vecchi” alla Bersani e D'Alema è destinato a produrre effetti nella prossime settimane, soprattutto se il Pd conseguirà un buon risultato alle regionali del 31 maggio.
Renzi è il primo leader del Pd che si comporta, e lo dice, come uno che non ha paura di lasciare “nemici a sinistra”: è la stessa logica del bipartitismo a cui tende il Pd renziano (e non a caso Renzi rivendica come una conquista storica per il Pd il premio alla lista e non alla coalizione e il ballottaggio nazionale), è la stessa logica del partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria («il sogno di una generazione che ora noi stiamo realizzando») a non contemplare la paura di nemici a sinistra.
«È molto interessante la sfida culturale della coalizione sociale di Landini: non la sottovaluto per niente – dice Renzi –. Ma per me non rappresenta il futuro della sinistra e, spiacerà a qualcuno di voi, non rappresenta neanche il passato della sinistra, è un mondo che non è mai stato maggioritario nella storia della sinistra italiana». Come a dire: se volete uscite la porta è quella, non ce ne sono altre. La legge elettorale è da sempre la legge più politica che c'è, perché disegna anche un'idea di partito e di sistema politico. E non a caso sull'Italicum, piuttosto che sul Jobs act come forse sarebbe stato più naturale, si consumerà la resa dei conti finale tra la vecchia dirigenza e la nuova.
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