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La scommessa pugliese della generazione startup

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viaggio nell’italia che innova

La scommessa pugliese della generazione startup

Quelli con una marcia in più, quelli con una laurea in tasca (made in Puglia), quelli nati con la doppia elica (nativi digitali con il bernoccolo dell’autoimprenditorialità), quelli che “la startup è mia e me la gestisco io”, quelli incensati a New Delhi, Mosca e San Francisco ma sconosciuti a Milano e Roma, quelli che non intendono arrendersi perché hanno ancora “molta fame di successo”, quelli che se ne stanno dodici ore al giorno appiccicati ai loro computer in uffici appena più grandi di uno sgabuzzino. Di “quelli che” la Puglia tracima e Annibale D’Elia è (stato) il suo profeta.

In principio fu “Spiriti bollenti”, un marchio-manifesto: 25mila euro nelle tasche di ogni startup che dimostrasse di possedere una buona idea. Avvertenza: tutto accade sotto il regno di Nichy Vendola, governatore nel decennio 2005-2015. I pugliesi ironizzano: la startup adoption precede la stepchild adoption. Per i vendoliani l’innovazione andava intesa in senso lato. Pure le associazioni e le coop che lavorano nelle periferie sono innovazione sociale. Il duo d’attacco è formato da Guglielmo Minervini, ex assessore regionale alle Politiche sociali, e il suo braccio operativo, Annibale D’Elia. La strategia è semplice: arrivare direttamente ai potenziali innovatori bypassando il blocco tecnocratico. Altro tassello di quella stagione: piccolo taglio di finanziamenti, grande platea. I frutti sono copiosi. E noi non entreremo nella polemica sul tasso di mortalità di queste imprese, fisiologicamente molto elevato. L’obiettivo era l’animazione sociale dal basso, di cui l’innovazione in senso stretto rappresentava solo un tassello. Un approccio “movimentista”, quello vendoliano, stroncato dalla Emilianoeconomics.

Il nuovo governatore ha seguito un approccio più tradizionale: non ha rinnovato il contratto da dirigente a D’Elia e ha affidato la pratica innovazione, stralciando quella sociale, all’ex rettore dell’università del Salento Domenico La Forgia. Ovvio che il viaggio tra le startup ( e gli spin off) pugliesi risenta in modo determinante delle politiche di questo ultimo decennio. Con un vuoto pericoloso che si è creato negli ultimi due anni.

Dei fondi miliardari del Por 2014-2016, di cui almeno 2,5 miliardi sono destinati all’innovazione, non è stato ancora speso un centesimo per ammissione dello stesso La Forgia. Il testimonial perfetto della via pugliese all’innovazione è Domenico Colucci, 26 anni di Noci, in provincia di Bari: figlio di impiegati, laurea in informatica, faccia da bravo ragazzo e giubbottino con zip. Tre anni fa è stato premiato a Bruxelles come migliore giovane imprenditore europeo dell’anno («Ero il più piccolo, l’unico italiano, e per giunta del Sud»). La scintilla che fa nascere Nextome scocca alla Rinascente di Milano. Un amico e socio di Domenico prende un caffè al bar del piano sotterraneo e di colpo ha bisogno di una toilette. La ricerca, laboriosissima, finisce al settimo piano. Idea: perché non lavoriamo a una app per ambienti chiusi? Ora tra i suoi clienti ci sono la Fca di Marchione e gli Aeroporti di Roma.

Matteo Serra è un ragazzo ventinovenne di Lecce con laurea e master in Scienza della comunicazione. La sua coop si chiama Pazlab. Insieme ai soci decide di acquistare una stampante 3D, una specie di lampada di Aladino dei nostri giorni. Scoprono che online si vende anche il kit, con i pezzi da assemblare. Lo comprano e in due settimane lo montano. Il passo successivo è naturale: perché non li vendiamo? Cosi nasce How Art. Quelli della “Coop sei tu” accettano di esporne due, uno a Modena e l’altro a Bari al prezzo di 990 euro. Funziona. Ma il salto avviene visitando l’Istituto tecnico industriale Righi di Taranto, per decenni fucina di tecnici dell’Ilva. Ora l’Ilva è in crisi nera e per questi ragazzi trovare lavoro sarà dura. Matteo e i suoi soci, d’accordo con il preside e un paio di professori, sono folgorati dalla pazza idea: facciamo produrre i singoli componenti delle stampanti 3D agli studenti del Righi. Lunedi 7 marzo si firma il contratto.

Di terapia per curare le malattie mentali vere, come la demenza senile, è lastricata la storia dello spin off “Prima che non ricordi”, fondata dal professore di Chimica della facoltà di Farmacia Nico Colabufo. In collaborazione con gli atenei di Sheffield, Groningen, Lisbona e col Gemelli di Roma avvia sperimentazioni dalle quali è nato un radio-tracciante in grado di diagnosticare l’Alzheimer e un kit per misurare il rame libero nel sangue, la cui presenza può segnalare il rischio di ammalarsi di demenza senile. In Italia le popolazioni più esposte alla degenerazione cerebrale risiedono in Liguria, Puglia (45mila malati) e Toscana. «Colpa anche dell’alimentazione e delle alte quantità di rame contenute in alcuni frutti di mare, uva e pomodori», dice Colabufo. Non pago dei suoi successi scientifici, il professore barese ha reinvestito gli introiti dei brevetti del suo team – 1 milione di euro – per creare a Triggiano, suo paese natale, un centro di riabilitazione cognitiva dedicato alla diagnosi precoce e alla cura di questa malattia.

Da Triggiano a Gioia del Colle, tra mucche da latte, vigne e caccia militari del 36° stormo. Qui il bocconiano-gioiese con specializzazione negli Usa, Vincenzo Notaristefano, partner di Digital Magics, organizza startweekend, una full immersion di 54 ore propedeutica al lancio di una nuova impresa e va a caccia di idee tra Puglia e Basilicata con Talent Garden. La versione barese del giardino dei talenti è Hub, l’incubatore incastrato tra i padiglioni della Fiera di Bari, il terzo del Sud dopo Roma e Siracusa. Giusy Ottonelli, una barese con laurea in Architettura e un lungo periodo di formazione a Barcellona, ha fondato insieme ad altri tre soci questo spazio all’interno del quale sono germogliate 200 startup. Una, Aulab, è nata per diffondere la cultura dell’autoimprenditorialità nelle scuole. Il costo per essere ospitati tra mobili vintage e container in cui lavorano i soci delle aziende più strutturate? Da 25 a 195 euro al mese. All’Hub si mangia, si scherza, si lavora e si macinano idee di business. Un sistema molecolare impensabile solo 20 anni fa, quando molti neodiplomati e laureati del Sud facevano la coda davanti le edicole per comprare i giornali dei concorsi pubblici e gli incubatori di nuove imprese erano riserve indiane gestite con politiche dirigiste da una società dell’Iri.

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