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Dalla strage di Duisburg al femminicidio. Se «Gomorra - La…

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MIGLIOR ESORDIO PER SERIE SKY

Dalla strage di Duisburg al femminicidio. Se «Gomorra - La serie» diventa «Forrest Gump»

Una scena della serie «Gomorra 2» (Ansa)
Una scena della serie «Gomorra 2» (Ansa)

Premessa numero uno: questo articolo contiene spoiler. Se quindi non avete ancora visto le prime due puntate della seconda stagione di «Gomorra - La serie» ma intendete farlo, non continuate la lettura. O meglio: salvatevi il link e ripassate a visione avvenuta. Premessa numero due: siamo del parere che, tra tutti i prodotti di intrattenimento a brand «Gomorra» sfornati negli ultimi dieci anni, la serie tv di Sky diretta da Stefano Sollima sia la cosa migliore. Premessa numero tre: le prime due puntate della seconda stagione non ci hanno convinto fino in fondo. E qui proveremo a spiegare perché.

Partendo proprio dagli spoiler e dalle ragioni che, a nostro avviso, hanno reso la prima serie il miglior prodotto a brand «Gomorra» sfornato negli ultimi dieci anni. Ma intanto vi raccontiamo una favola. C'era una volta in Italia la grande tradizione del cinema di genere – peplum, western, horror e poliziotteschi – che fece di Cinecittà un punto di riferimento mondiale per la settima arte, funzionava al botteghino e finanziava il cinema d'autore che, qui da noi, è sempre stato di nicchia. «Gomorra – La serie» ha rappresentato, per quanto ci riguarda, la prosecuzione di quella gloriosa stagione con altri mezzi: è cinema artigianale all'italiana felicemente piegato alle logiche della ficion televisiva modello Hbo. Un po' come se Sollima figlio avesse raccolto il testimone di Sollima padre (l'indimenticato Sergio di «Città violenta») portando la di lui lezione nel terzo millennio, con in più un approccio autoriale. Non c'è nessun moralismo in «Gomorra – La serie» e la cosa non ci dispiace. Non ci sono sconti allo spettatore: si parla in napoletano stretto come ne «L'albero degli zoccoli» si parla il dialetto bergamasco. Non c'è lo Stato e, quando c'è, recita da attore non protagonista, come per troppo tempo è accaduto in troppi quartieri del Mezzogiorno d'Italia.

Troppe vittime innocenti
Queste almeno le sensazioni che la prima stagione ci lasciò addosso. Perché nella seconda, almeno per quello che si è visto finora, i conti non sembrano tornare del tutto. Certo, gli attori continuano a fare la differenza, all'insegna di prove tutte improntate sul sopra le righe: Ciro (Marco D'Amore) è sempre più spietato. Genny (Salvatore Esposito) sempre più iconico. Don Salvatore (Marco Palvetti) sempre più arguto (la battuta sugli «Stati Uniti di Scampia e Secondigliano» rimarrà, al pari delle celeberrime «Ddoje fritture»). Ma il numero eccessivo di uccisioni gratuite e, per giunta, irrilevanti nell'economia del plot finisce per infastidire. Ciro Deve finanziare la sua piazza di spaccio e rapina un portavalori trucidando le guardie giurate. In Honduras Genny, eroe dei due mondi del narcotraffico uscito da appena un anno dalla terapia intensiva (poi dicono che in Campania la sanità non funziona), gioca col machete all'allegro chirurgo con i militari prigionieri dei narcos, manco stessimo in un filmaccio di Eli Roth. E poi, in fuga per le strade di Colonia come fossimo in un videogame spara-tutto, si libera di qualche avventore strangolandolo. In tutti e tre i casi parliamo di vittime innocenti della criminalità organizzata. Che purtroppo esistono, per carità, ma nella logica della criminalità organizzata rappresentano una specie di «incidente di percorso» che ha l'effetto collaterale assai spiacevole di alzare il livello di allerta dell'ordine pubblico. E che quindi va dosato con estrema parsimonia.

Savastano come Forrest Gump
Ci ha poco convinti anche il mash-up camorra-‘ndrangheta del secondo episodio, con l'esplicito riferimento alla strage di Duisburg, «trasferita» a Colonia. Una vicenda complessa, quella della faida di San Luca, che non si capisce perché debba essere mescolata a quella altrettanto complessa del sistema di Secondigliano. O forse si capisce: l'intento potrebbe essere quello di vendere meglio il prodotto all'estero, internazionalizzandone il plot. Cosa vuoi che ne sappiano un tedesco, ub americano o un inglese delle differenze che intercorrono tra camorra e ‘ndrangheta e della distanza che separa la Calabria dall'hinterland napoletano? Se a un tedesco dici mafia, lui pensa a Duisburg e alloria diamogli Duisburg. Ma così facendo rischiamo di trasformare Savastano in una specie di Forrest Gump delle mafie, un professionista del «quando è successo, lui c'era». Di questo passo a breve vedremo flashback con lo yacht di Buscetta e la trattativa Stato-mafia.

Un femminicidio «scolastico»
E poi il delicatissimo tema del femminicidio. Nel primo episodio Ciro «studia» da boss e finisce per strangolare la moglie che, mossa da un rigurgito di coscienza, pensa per un secondo di andarlo a denunciare. Ci può stare, per carità, ma non sarebbe stato meglio, nell'economia della storia, «giocarsi» questa trovata a effetto più avanti, dopo aver esplorato/esasperato ancora di più il rapporto marito-moglie? Invece no: ci scappa subito il morto che non ti aspetti, così come nella prima puntata della seconda serie di «House of Cards» Frank Underwood si liberava subito della scomoda giovane giornalista amante e confidente. Un caso di scuola, insomma, per dare subito in pasto agli spettatori tutto quel che dalla serie vorrebbero e ancora di più. Ma ha senso che la camorra sia «bigger than life»? Ultima considerazione: quasi non ce ne stavamo accorgendo, ma siamo riusciti a scrivere un pezzo di 90 e più righe su «Gomorra» senza mai nominare Roberto Saviano. Potenza di un brand. Tutti sanno che cos'è la Coca Cola. Ma quanti ricordano che nacque ad Altanta per mano del farmacista John Stith Pemberton, alle prese con un farmaco per il mal di testa?

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