Ci sono anche l'Eni e altre nove società tra i 70 indagati a cui oggi la squadra mobile di Potenza e i Carabinieri del Noe hanno notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari relative ad alcune parti dell'inchiesta sul petrolio in Basilicata. Gli avvisi notificati oggi non riguardano il «filone siciliano» - ancora aperto - e in particolare il traffico di influenze illecite addebitato dalla Procura di Potenza alla cosiddetta «cricca del petrolio» capeggiata da Gianluca Gemelli.
Riesame: l’accusa ad Eni è fondata
Sono state poi rese note poi oggi le conclusioni del Tribunale del Riesame di Potenza, che lo scorso 16 aprile ha rigettato la richiesta di revoca del sequestro di due vasche di stoccaggio rifiuti e del pozzo di reiniezione dell'impianto di estrazione lucano, finito nell'inchiesta della Procura potentina sul petrolio in Val d'Agri. Per il Riesame «la protrazione dell'utilizzo delle vasche, dell'impianto e del pozzo» dello stabilimento petrolifero Eni Co.va di Viggiano (Basilicata) «costituisce aggravio alle conseguenze dannose del delitto, protraendo, attraverso l'illecito smaltimento di rifiuti, la diffusione nell'ambiente di sostanze pericolose». Ecco perché è «fondata» l'accusa contro l'Eni di aver smaltito illecitamente nel centro oli di Viggiano (Potenza) i rifiuti prodotti dall'estrazione del petrolio, con procedure che hanno fatto conseguire all'azienda un «ingiusto profitto».
Tra gli indagati di questo filone investigativo risultano gli ex responsabili del Distretto meridionale di Eni, Ruggero Gheller ed Enrico Trovato. Con loro anche l'ex responsabile Sime (Sicurezza, salute e ambiente) di Viggiano, Roberta Angelini, e l'ex responsabile operativo dello stabilimento Co.va, Nicola Allegro. Stando all'accusa le acque reflue dell'estrazione petrolifera, certificate illecitamente come «non pericolose», sarebbero finite in due grandi vasche per poi essere smaltite con la riniezione nel sottosuolo con sostanze inquinanti.
I dirigenti dell'Eni si sarebbero accordati per non far emergere i problemi legati alle emissioni di agenti inquinati, omettendo di avvertire le autorità. Anche l'Arpab (Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente della Basilicata) avrebbe compiuto controlli approssimativi. Secondo il Riesame, dagli atti dell'indagine emergerebbe una «totale sudditanza» verso la società pubblica. Il risultato, appunto, sarebbero i sospetti «controlli approssimativi e carenti» dei tecnici regionali, i quali sarebbero stati «coscienti» che i valori delle analisi sui terreni «superavano quelli previsti dalla legge».
Eni: in centro Viggiano rispettate 'best practice'
Eni rivendica però la «correttezza del proprio operato e conferma che il Centro Olio Val d'Agri rispetta le best practice internazionali». Lo ha detto un portavoce Eni dopo le motivazioni del Tribunale del riesame. La compagnia ha ribadito «la massima collaborazione alla magistratura e il proprio interesse a che possa essere fatta chiarezza sulla vicenda. Gli esiti delle perizie indipendenti che la società ha promosso, non solo ribadiscono la correttezza dell'impianto ma anche l'assenza di rischi sanitari e ambientali».
Riesame: i controlli dell'Arpab? Carenti
Sui reflui che, in Val d'Agri, l'Eni smaltiva o reimmetteva nel sottosuolo dopo l'estrazione del petrolio vi furono inoltre «controlli approssimativi e carenti» da parte dell'Arpab, l'azienda di protezione ambientale della Basilicata. Secondo il Riesame, i tecnici che controllavano il processo di smaltimento delle acque erano coscienti che esse superavano «i valori di legge», fino al punto da «filtrare preventivamente i campioni prima di inviarli al laboratorio». Tale «attività letteralmente fraudolenta» era basata anche sulla «totale sudditanza nei confronti di Eni» da parte dei laboratori che analizzavano le acque: uno degli indagati, infatti, interrogato dagli inquirenti, ammise «l'irregolarità della procedura di campionamento».
© Riproduzione riservata