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Albertazzi divo e ribelle, baciato dagli dei del palcoscenico

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l’attore aveva 92 anni

Albertazzi divo e ribelle, baciato dagli dei del palcoscenico

  • –di Renato Palazzi
Giorgio Albertazzi (Ansa)
Giorgio Albertazzi (Ansa)

Talentuoso, contraddittorio, geniale, affascinante, Giorgio Albertazzi ha avuto in dono dagli dei del palcoscenico una carriera sfaccettata, multiforme e una personalità tra le più complesse e difficili da etichettare del teatro italiano del secondo Novecento. È stato un divo ed è stato a suo modo un ribelle, è stato un mito popolare e al tempo stesso una figura profondamente anticonformista. Bravo, bravissimo, di una bravura che poteva essere illuminante o stucchevole, spiazzante o canonica, a seconda dei periodi, degli umori, delle scelte drammaturgiche.

Molti, tra i meno giovani, lo ricordano fine dicitore televisivo, quando, negli anni Cinquanta, declamava versi ammannendoli come massime delle cartine da cioccolatini (o almeno, questo è il ricordo che mi pare di averne conservato), e poi idolo delle signore quale volto emblematico, protagonista e talora anche regista di tanti sceneggiati sul piccolo schermo, tra cui L’idiota di Dostoevskij e Jeckyll e Hyde.

Negli stessi anni, però, con la compagnia Proclemer-Albertazzi, faceva scelte coraggiose rispetto ai gusti e alle convenzioni dell’epoca, imponendo un modello di impresa privata (allora usavano ancora queste distinzioni) attenta ai profitti ma non sottomessa ai condizionamenti commerciali: Un cappello pieno di pioggia di Michael Gazzo, La governante di Vitaliano Brancati, La pietà di novembre di Franco Brusati non erano titoli né comodi né scontati.

“Aveva una sua visione personale del teatro, ma non disdegnava di affidarsi a registi di gran nome, da Visconti a Zeffirelli a Squarzina ”

 

Aveva una sua visione personale del teatro, ma non disdegnava di affidarsi a registi di gran nome: dopo avere esordito con Visconti in Troilo e Cressida, aveva interpretato un celebre Amleto diretto da Zeffirelli, che aveva riscosso clamorosi consensi anche all’Old Vic di Londra, e dallo stesso Zeffirelli si era fatto dirigere anche nel controverso Dopo la caduta di Arthur Miller, mentre per la Maria Stuarda di Schiller si erano affidati a Luigi Squarzina.

Ancora in anni non troppo lontani, quasi per mettersi alla prova, aveva lavorato con artisti all’apparenza molto lontani da lui, come Ronconi, con cui nel 2005 aveva affrontato un singolare spettacolo ispirato ai Diari privati di Léautaud, o Antonio Latella, che ne aveva fatto l’epicentro di uno straordinario Lear in fieri, un Lear in cui la vicenda shakespeariana si intrecciava coi sentimenti degli attori che lo stavano provando.
Indimenticabile, di quello spettacolo, la sua battuta «Io non sono Lear. Io non recito Lear. Non è il momento di recitare, è il momento di morire».

Aveva girato molti film, di cui il più importante era stato L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, ma proprio in quel caso si era potuto cogliere fino in fondo un curioso paradosso: Albertazzi, bell’uomo, grande attore di teatro, “bucava” poco lo schermo, di tutte quelle sue interpretazioni cinematografiche non restano tracce indelebili.

Un altro paradosso legato a lui è il fatto che il periodo più vivo e incisivo della sua carriera non ha coinciso con gli anni del successo, della fama, delle grandi tournée, ma con un periodo in cui quel modello di attore-mattatore che egli aveva incarnato pareva ormai superato dalla storia: negli anni Ottanta, lucido, estroso, reattivo, come avvertendo questo passaggio decisivo aveva cercato altre strade, altri modi, più inquieti e trasversali, quasi iniziatici, di affrontare la recitazione. Di quel tempo resta l’immagine di spettacoli bellissimi e sorprendenti, l’enigmatico Re Nicolò di Wedekind, con la regia di Egisto Marcucci, un ipnotico, misterioso Enrico IV di Pirandello con la regia di Antonio Calenda, tutto sul confine tra normalità e follia.

Albertazzi dirige e interpreta "Jekyll" (1969), sceneggiato RAI in 4 episodi liberamente tratto dal racconto di R.L. Stevenson

Erano state, le sue proposte di quel tempo, come un sontuoso canto del cigno, un commiato a un teatro di grandi progetti e grandi visioni. Poi era venuto quello spettacolo acclamato, replicatissimo che è stato Le memorie di Adriano della Yourcenar, diretto da Maurizio Scaparro, ma era già l’estremo lampo, quasi “postumo”, in una fase della sua vita in cui pareva giocare sulla sua vecchiaia, sui suoi rapporti con le donne, sui suoi successi.

Questi ultimi anni erano stati caratterizzati da una strana esuberanza quasi dimostrativa, tante partecipazioni a spettacoli episodici, poco significativi, persino a fatui show televisivi, in una sorta di spreco finale del suo talento, dove solo la pungente intelligenza gli evitava di cadere nella mera esibizione di un declino.

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