Raramente le elezioni di medio termine sono favorevoli ai governi in carica. E così è stato con queste comunali che per molti aspetti si possono considerare alla stregua di elezioni di medio termine. Esiste un ciclo economico ed esiste un ciclo elettorale.
I governi all’inizio del loro mandato godono di solito di un buon livello di popolarità. Con l’andare del tempo il livello diminuisce per toccare il minimo a metà del mandato e risalire – ma non sempre - con l’approssimarsi delle elezioni successive. Per Renzi e il suo governo il picco positivo del ciclo ha coinciso con le elezioni europee del 2014. Già i risultati delle regionali dello scorso anno, pur essendo sostanzialmente positivi, avevano lasciato intravedere qualche problema, per esempio la sconfitta in Liguria. Queste comunali evidenziano una forte erosione della popolarità del Pd e del governo. Si tratta pur sempre di elezioni comunali, ma il complesso dei risultati è tale per cui è chiaramente visibile accanto alla influenza dei fattori locali anche l’impatto negativo della declinante popolarità del governo nazionale e del suo leader. C’è poco da fare. Di questi tempi governare logora e lo scopriranno presto anche i vincenti di oggi.
I dati sono impietosi. Nei comuni sopra i 15.000 abitanti (e anche in quelli più piccoli) il Pd non era andato male al primo turno. Era riuscito a piazzare al ballottaggio un suo candidato in 90 comuni su 121 in cui si è votato domenica scorsa. Ma ha vinto solo in 34 casi. Si può consolare con le vittorie di Milano e di Varese, ma complessivamente si tratta di un risultato molto deludente. Come tasso di successo ha fatto meglio addirittura il centro-destra, che non ha vinto in nessuna delle cinque maggiori città, ma l’ha spuntata in 29 ballottaggi sui 61 in cui era presente. Ma il vero vincitore di questa consultazione è il M5s.
I casi di Roma e soprattutto di Torino hanno suscitato scalpore, ma il dato più rivelatore è il numero di ballottaggi vinti: 19 su 20. Questo non può essere un caso. E infatti non lo è. Il Movimento di Grillo è riuscito a interpretare la voglia di cambiamento e non solo la rabbia di una larga fetta dell’elettorato italiano che continua a impegnarsi in politica.
Roma e Torino sono due città completamente diverse. Lo si è ripetuto ad nauseam che a Roma il M5s aveva buon gioco viste le colpe del Pd romano e le condizioni disastrate della città, ma a Torino no. Eppure due casi così diversi hanno generato lo stesso esito. La voglia di cambiamento ha prevalso anche a Torino.
Ma non c’è solo questo. Nella competizione con il Pd il M5s è avvantaggiato dal fatto, su cui abbiamo insistito più volte, di essere il vero partito della nazione, il partito “pigliatutti”, capace di attrarre consensi in tutti i settori dello spazio politico. Questa sua caratteristica gli consente di essere il destinatario del voto di molti elettori sia di destra che di sinistra che al ballottaggio non hanno propri candidati per cui votare. Sono le seconde preferenze da cui spesso dipende l’esito della contesa al secondo turno. Di questo avevamo parlato qualche settimana fa sulla base dei dati di sondaggio. Ora possiamo parlarne sulla base di dati veri, quelli di sezione, che sono ancora più affidabili.
Così, calcolando i flussi tra il primo e il secondo turno, si scopre che a Torino il 98% degli elettori del candidato di Area popolare, l’85% degli elettori di Forza Italia, il 71% degli elettori del candidato di Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno votato al ballottaggio l’Appendino e non Fassino. Tra l’altro in pochi si sono astenuti. Il sindaco uscente ha raccolto pochi voti alla sua destra e non ha fatto il pieno dei voti alla sua sinistra . Infatti solo il 47% degli elettori di Airaudo, il candidato della sinistra, lo ha votato mentre il 39% si è astenuto e il 14% ha preferito votare l’Appendino. Sono dati che spiegano inequivocabilmente l’esito della competizione torinese. In sintesi, Fassino ha perso voti di sinistra verso l’astensione e soprattutto non è riuscito a conquistare voti dal centro e dalla destra.
Il caso di Milano è diverso. E questo deve far riflettere sul come i fattori locali giochino un ruolo importante. Sala ha vinto perché non solo è riuscito a riportare al voto i suoi elettori del primo turno, ma anche perché per lui hanno votato il 91% degli elettori di Rizzo, il candidato della sinistra radicale che al primo turno aveva preso 19.000 voti. La differenza finale tra Sala e Parisi è stata di 17.000 voti. Altro dato interessante a Milano è relativo al comportamento degli elettori del M5s che si sono astenuti in massa. Per la precisione l’88%. In pochissimi hanno votato il candidato del centro-destra e praticamente nessuno, considerando l’errore statistico, ha votato Sala.
A Bologna invece gli elettori del Movimento sono stati un pochino più generosi nei confronti della candidata del centro-destra. Circa il 45% di loro l’ha votata mentre solo il 10% ha scelto Merola. Ma anche in questo caso molti di loro si sono astenuti al secondo turno. In sintesi, I dati di Milano e di Bologna confermano quanto già rilevato in altre occasioni: è più facile che un leghista voti un grillino che viceversa. Esiste una asimmetria tra gli elettori del centro-destra in generale e quelli del M5s. I leghisti hanno fatto vincere l’Appendino a Torino ma i grillini non hanno fatto vincere Parisi a Milano mentre avrebbero potuto farlo.
Adesso il confronto si sposta sul referendum di Ottobre sulla riforma costituzionale. Questa sarà la sfida cruciale. Su questo terreno Renzi parte in vantaggio sulla carta. La riforma costituzionale è il cambiamento. Ma va spiegata bene agli Italiani. Il livello di disinfomazione su questo tema è pauroso in tutti gli strati della popolazione. Per questo i fautori del no hanno avuto finora buon gioco ad alimentare il timore che questo sia un cambiamento sì, ma pericoloso. Da qui a Ottobre c’è molto lavoro da fare per Renzi e per il Pd. Nel frattempo riflettiamo sul fatto che oggi 121 comuni hanno un sindaco con una maggioranza in consiglio. Gli elettori hanno scelto chi li governerà per i prossimi 5 anni. Proviamo a immaginare l’elezione del sindaco di Roma con un consiglio comunale eletto oggi con un sistema proporzionale.
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